Categoria: Architettura

  • Sinagoga di Viadana

    Sinagoga di Viadana

    Grazie alla disponibilità del sig. Luigi Cavatorta, bravissimo studioso della storia viadanese, e accompagnato dall’amico fotografo Lorenzo Avosani, ho avuto l’occasione di visitare un vero gioiello nascosto dell’architettura della mia città: la Sinagoga ebraica. Una “scoperta” esaltante, testimonianza di una grandezza passata in questo caso valorizzata abbastanza bene, ma in altri numerosi casi colpevolmente ignorata.

    Riporto il testo di Wikipedia che la descrive:

    Per secoli la comunità ebraica di Viadana aveva usato una sinagoga completamente affrescata che era collocata in un edificio adiacente all’odierna sinagoga, nell’area del ghetto. Di questo oratorio oggi non restano che cinque stacchi pittorici conservati al Museo di Viadana.

    Ai primi dell’Ottocento, fu affidato all’architetto Carlo Visioli il progetto di una grande sinagoga neoclassica. La costruzione, pur giunta ad uno stadio avanzato, tuttavia non fu mai completata a causa del declino demografico della comunità locale.

    Della sinagoga rimane un grandioso ambiente circolare sormontato da una cupola finestrata sorretta sulle pareti da otto alte colonne ed archi monumentali. Il matroneo è murato. Dall’ingresso si vedono partire ancora le scale che dovevano portare ad esso, ma non sembra che siano state mai completate.

    L’interno è disadorno; gli arredi appartenenti alla comunità non vi furono mai apposti, rimanendo collocati in un locale adiacente che fungeva da sinagoga durante il periodo della costruzione. Nascosti nel 1943, durante l’occupazione nazista, furono successivamente restituiti e trasferiti a Mantova nel dopoguerra. La sinagoga fu venduta ed usata per oltre 30 anni come laboratorio di falegnameria.

    È degli anni recenti la riscoperta del valore storico e artistico della costruzione. La sinagoga è stata per la prima volta riaperta al pubblico dagli attuali proprietari  durante il Festival lodoviciano del 2004 ed è da allora occasionalmente utilizzata per eventi culturali.

  • Sabbioneta (frammenti in 35mm)

    Sabbioneta (frammenti in 35mm)

    E’ decisamente vero che la fotografia analogica è sinonimo di lentezza, nel senso più positivo del termine. E’ passato più di un anno da quando ho accompagnato un gruppo di amici a visitare e fotografare Sabbioneta, la Piccola Atene della Bassa, ma solo in questi giorni ho dato un’occhiata con calma a quei negativi ed ho effettuato la scansione di quelli che mi interessavano.

    Quel pomeriggio ho deciso di fare lo strano e anziché portarmi tutto l’armamentario digitale, mi sono limitato ad una sola fotocamera analogica, la Nikon F6, ed un rullino 35 mm, un Kodak Portra 400. Non è stata una gran scelta, quella del rullino dico, perché 400 iso quel grigio pomeriggio d’autunno erano decisamente pochi, soprattutto nelle penombra delle strade, ma mi sono arrangiato cercando di fare meno danni e meno mosso possibile. Ed ho anche cercato di concentrarmi sui particolari invece di dedicarmi alle ampie vedute (anche perché, quando serve, il decentrabile per l’architettura lo lasci sempre a casa).

    Ho salvato sei fotogrammi di quel pomeriggio; se non avessi lavorato parecchio per fare le scansioni dei negativi, probabilmente ne avrei salvato solo un paio. Ma tant’è.

     

     

  • Prun o… Moria?

    Prun o… Moria?

    Lo ammetto: appena entrato mi è venuto in mente il Monte Moria de Il Signore degli Anelli ed ho cominciato a guardarmi in giro aspettandomi di trovare il demone Balrog. Invece no, non c’era. E non c’era nemmeno Gandalf. O meglio: c’era, ma parlava veronese e andava in giro scattando foto. Le cave di Prun sono delle antiche cave di scaglia rosa sotterranee scavate nel Monte Prun nei pressi di Negrar (VR). Queste cave pare che risalgano addirittura al XIII secolo e sono rimaste attive almeno fino a buona parte del XX. Purtroppo sono molto pericolose perché soggette a crolli e non è possibile visitarle integralmente, ma quello che ho visto mi ha veramente entusiasmato. A parte i riferimenti fantasy, sono veramente suggestive ed alcuni scorci mi hanno fatto esclamare “Guarda, l’Antelope Canyon dei poveri!”. Le foto le ho fatte con l’iPhone, perché non mi sono portato tutto il necessario per fare una cosa seria. Come dire: mi sa che devo tornare per forza.


  • Non solo selfies

    Non solo selfies

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    Debbo recitare il mea culpa e cospargermi il capo di cenere (così, magari, ci cresce pure qualcosa), perché grazie allo smartphone (un iPhone6 Plus, in questo caso) ho potuto portare a casa scatti diversamente improbabili con la DSLR a meno di ricorrere all’uso del treppiede, del flash o alla tecnica dell’HDR.

    Sono andato in esplorazione (termine indicato, considerate le condizioni di degrado in cui versa) in una vecchia corte della campagna parmense con alcuni amici, con l’intenzione di fotografare l’abbandono e l’azione inclemente del tempo sulle cose degli uomini. Avevo già fotografato un poco all’esterno questo sito, ma entrare è stata comunque una esperienza gratificante. Molteplici storie di vita, di lavoro, forse di sofferenza, probabilmente di ricchezza e poi decadenza. Uscendo si porta nel cuore la tristezza nel vedere tanta bellezza abbandonata. E, tra l’altro, non si tratta di situazioni isolate: le nostre campagne sono piene di realtà simili, grandi o piccole, famose o sconosciute, ma tutte accomunate dallo stesso destino. Ad esempio, solo uscendo da questa costruzione, ci si trova davanti ad un’altra splendida corte abbandonata ed una ancora appare sullo sfondo poco più lontano.

    Le foto: ok, non saranno opere d’arte (colpa mia) e non saranno nemmeno utilizzabili per stampe di grandi dimensioni (limite tecnico), ma riuscire a documentare comunque e a, come si dice, portare a casa gli scatti ugualmente, è stato un plus veramente gradito.

    E’ proprio il caso di dire: una freccia in più all’arco del fotografo. Rimane sempre da reperire il fotografo.

     

     

     

     

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  • I cancelli del cielo

    I cancelli del cielo

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    Ci ho pensato dopo ma, per il titolo di questa foto, ho usato inconsapevolmente quello di uno dei flop cinematografici più eclatanti del secolo (scorso), il film western del regista Michael Cimino.

    Della serie: si vede che ho fatto le scuole alte di marketing…

  • Trittico mantovano

    Trittico mantovano

    trittico-mantovano_02Uscita fotografica notturna con gli amici del gruppo Nikonisti Verona a Mantova.

    Malgrado il venticello simil-siberiano che ci ha messo un pochino in difficoltà, ne è valsa la pena perché la città virgiliana, di notte, libera (fin troppo mi vien da dire) dalle moltitudini di turisti che la frequentano abitualmente, riacquista la sua dimensione pacata, forte dei secoli di storia che la permeano.

    La “sfida” era fotografare con un’unica ottica, fissa. Quindi niente zoom. Io ho anche esagerato, lasciando il treppiede in auto e, considerata l’illuminazione alla Jack The Ripper, ho fatto un bel po’ di fatica, a mano libera, con gli ISO al massimo e i diaframmi aperti come se non ci fosse un domani. Il risultato, ovviamente, sono scatti con rumore a palla, focus alla “garuia ciapà?” (translate for the beginners: “Ci avrò preso?”), mosso “creativo” come se piovesse.

    Però li ho tenuti, un po’ a memoria futura della bella serata e un po’ perché, grana o non grana, le foto di Mantova non si buttano mai.

     

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  • Déjà vu

    Déjà vu

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    Esistono soggetti che vengono fotografati continuamente, li abbiamo già visti in tutte le salse. Però noi non lo abbiamo mai fatto, non abbiamo uno scatto di quel particolare soggetto. E quando ci capita l’occasione o quando, semplicemente, decidiamo di colmare la lacuna, cerchiamo tutti i modi possibili per evitare di essere ovvii, ripetitivi. Cerchiamo di scattare ad un orario insolito, magari anche di notte, per ottenere un tipo di illuminazione originale; consultiamo fino allo sfinimento le previsioni meteo per sfruttare un particolare evento atmosferico, magari prima, dopo o anche – temerariamente e, oserei dire, avventatamente – durante un temporale; studiamo di utilizzare una lente che ci offra una focale insolita, come un grandangolo da posizione ravvicinata o un teleobiettivo per comprimere i piani; giriamo in lungo ed in largo (se il luogo lo consente) per ottenere una inquadratura insolita, innovativa, appunto. Insomma, cerchiamo in tutti i modi di essere originali. Non sempre è possibile, però.

    Questa mattina ho pensato bene di fare qualche scatto alla stazione ferroviaria Mediopadana di Reggio Emilia, la bellissima struttura progettata dall’architetto spagnolo Calatrava; sono partito animato da intenzioni bellicose, con tutto l’armamentario al seguito e ripassando mentalmente durante il tragitto tutta la letteratura fotografica divorata fino ad ora.

    Quando sono tornato, ed ho sviluppato i miei scatti, mi sono reso conto che non erano migliori delle centinaia che avevo visto ma nemmeno peggiori di molti di essi. E allora? E allora ho deciso che, essendo foto fatte con la mia testa e con la mia macchina fotografica, originali o no, sono comunque le mie foto e, brutte (probabile) o belle che siano, tant’è.

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  • Biblioteca Maldotti

    Biblioteca Maldotti

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    Si entra in punta di piedi.

    Ad avercelo, viene l’istinto di togliersi il cappello, come si fa quando si varca la porta di una chiesa. E subito si è avvolti dall’atmosfera assolutamente singolare che accomuna questi luoghi.

    Sto parlando della Biblioteca Maldotti, ospitata nel bel palazzo antico di corso Garibaldi a Guastalla, che ho avuto la fortuna di visitare e fotografare grazie alla disponibilità del direttore Gino Ruozzi ed alla cortesia della responsabile Lorenza Pavesi che ha rinunciato ad una mattinata di ferie per scortarmi fra libri e scaffali.

    Rispetto agli spunti che questo particolare ambiente offre, ho effettuato pochissimi scatti ed ho speso più tempo a guardarmi attorno, prendendo appunti mentalmente e ripromettendomi di tornare. Ma, del resto, questa è una mia abitudine consolidata, retaggio – forse – dei tempi della pellicola; non di rado mi capita di fare ore di macchina per fotografare un luogo interessante e tornare a casa con quattro foto in croce. Ma questa è un’altra storia.

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  • I portici di Pomponesco

    I portici di Pomponesco

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    Piazza XXIII Aprile a Pomponesco è bellissima. E’ talmente bella che è stata utilizzata anche per le riprese dello sceneggiato tv “Ligabue” del 1977 (la sceneggiatura era di Cesare Zavattini).

    E i portici che le fanno da corona non sono da meno.

    Forse sono di parte, perché sono i portici della mia infanzia.

    Qui ho trascorso tantissimo tempo, dagli zii materni, complici i pressanti impegni lavorativi dei miei genitori.

    Qui sono stato felice, perché sono i portici che ospitavano il negozio del fornaio, dalla vetrina invitante per gli occhi e con il profumo invitante per la gola, in cui la zia mi comprava la focaccia per la colazione del mattino; da questi portici spiavo speranzoso le giostre della fiera di Santa Felicita (nomen omen) ed i miei occhi convincevano – senza troppa fatica, a dire la verità – lo zio ad acquistarmi i gettoni per l’autoscontro o un gioco sulle numerose bancarelle. Sotto questi portici il nonno mi portava a passeggio come se fossi un trofeo, mostrando con malcelato orgoglio il suo nipote ai conoscenti.

    Sotto questi portici ho trascorso anche una adolescenza spensierata e, tutto sommato, formativa, quando lavoravo – naturalmente gratis – come dj (oggi si dice speaker radiofonico, ma puzza di sintetico) a Radio Po, al tempo delle cosiddette “radio libere”. Allora si faceva tutto da soli: si era conduttori, registi e pure telefonisti. Non c’erano le stanze di trasmissione insonorizzate moderne. O meglio: c’era una sorta di insonorizzazione fatta incollando alle pareti i contenitori di cartone delle uova (chi ha la mia età sa perfettamente di cosa si tratta), ma mandavamo tutto a farsi benedire tenendo spalancata la finestra sulla piazza, da cui entrava il cinguettio degli uccelli, il vociare delle “spose”, il martellìo delle campane e anche qualche “aficionado” che, invece di telefonare, trovava più pratico passare davanti alla finestra e… “Mi metti ‘On the road again’ dei Rockets?“.

    Sotto questi portici sono tornato questa sera, con la macchina fotografica. Ad un certo punto è passata una signora anziana, camminando piano ed appoggiandosi al bastone. Mi ha visto ed ha esclamato, in dialetto: “Al ma scüsa, fursi a’ gava mia da pasar, l’è dre futugrafar…” (Mi scusi, forse non dovevo passare, sta fotografando…). Le ho detto di passare tranquillamente e di non preoccuparsi.

    Era uguale a mia madre, che adesso guarda i portici della sua Pomponesco da un punto di vista privilegiato.

     

  • I portici di Guastalla

    I portici di Guastalla

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    Sono innumerevoli, nelle città della Bassa, i gruppi di portici che caratterizzano inconfondibilmente l’architettura locale.

    Questa volta la ricerca mi ha portato nella vicina Guastalla, città stracolma di storia e, appunto, belle file di portici.

    E mi sa che siamo solo all’inizio…

    Edit: integro con il commento alla foto di un guastallese D.O.C., l’amico Damiano Alberini, che “fotografa” il luogo e, soprattutto, una delle motivazioni che mi spingono a fotografare e condividere i miei scatti.

    … E’ uno dei punti di Guastalla che mi ha da sempre più affascinato, un crocevia di storia e cultura: venendo da piazza Mazzini, quindi dal palazzo ducale, dal Duomo e dal Frantòn, ci si trova sotto questi meravigliosi portici impregnati di storia, al termine di corso Garibaldi, di fronte alla biblioteca Maldotti, prima di arrivare a Palazzo Frattini, davanti a cui si apre piazza Garibaldi.
    La bellezza della fotografia, in generale, è che ci permette di fermarci a ragionare su ciò che abbiamo, perché spesso, camminando o passeggiando, non ce ne rendiamo conto.

  • Pixel volant, scripta manent

    Pixel volant, scripta manent

    tetti-di-vigolenoAnche se mi sono dedicato alla fotografia da poco tempo, una delle prime domande che mi sono posto è se sia migliore la foto visualizzata sui numerosi supporti digitali disponibili oggigiorno ( computer, tablet, smartphone, televisione e così via) oppure la “vecchia” stampa su carta fotografica.

    La risposta è pressoché scontata e condivisa dalla quasi totalità degli appassionati: la stampa fotografica è tutt’ora insostituibile. I motivi sono svariati, alcuni oggettivi ed altri prettamente legati al gusto personale: su tutti l’indiscutibile piacere di toccare con mano il frutto del proprio “lavoro” intellettuale e manuale; le foto visualizzate su un monitor di qualsiasi tipo sono retroilluminate e,  pur apparendo spesso veramente bellissime, perdono la naturalezza della luce riflessa dal supporto cartaceo; le stampe fotografiche possono essere anche impreziosite da incorniciature adeguate che, in alcuni casi, riescono anche a stravolgere la prima impressione che ci rende una fotografia; inoltre la varietà dei supporti dedicati alla stampa (carte lucide, semilucide, opache, di cotone, senza dimenticare le decine di formati disponibili) consente di scegliere il tipo che maggiormente si adatta alla fotografia da riprodurre.

    E se mai avessi avuto ancora qualche dubbio, me lo sono tolto definitivamente guardando le mie foto stampate appositamente per la mostra “La fotografia paesaggistica”: alcune mi piacevano già nella visualizzazione a monitor ma altre non mi convincevano pienamente; ebbene, rivedendole su carta ho cambiato radicalmente opinione e mi sono convinto che il processo di stampa, a patto che sia portato a termine in modo adeguato, è la conclusione naturale ed irrinunciabile di tutto il percorso fotografico.

  • Corte

    Corte

    corte

    Ci sono sempre state le corti abbandonate, nelle nostre campagne.

    Forse il fenomeno era molto più evidente negli anni ’60, con il boom economico che spingeva le persone a lasciare il duro lavoro dei campi per cercare gratificazione nelle catene di montaggio delle fabbriche (no comment).

    Anche ora, malgrado la ritrovata identità di molti giovani agricoltori, sono sempre tante le case di campagna, padronali o meno, che vengono lasciate al loro destino, all’incuria del tempo.

    Ed è un vero peccato.

    Perché, comunque la si pensi, sono l’icona delle nostre radici.