Categoria: Paesaggio

  • Le strade di Viadana (e dintorni)

    Le strade di Viadana (e dintorni)

    Un giro virtuale per le strade del viadanese, immortalato su pellicola, per godersi ogni attimo con calma.

    Quando sembra che non ci sia più tempo, la tentazione è quella di mettersi a correre, fare presto, fare il più cose possibile.

    Ed invece no. Bisogna fermarsi. Assaporare le cose che conosci e che ami, come la tua Bassa, le campagne che vedi da tanto tempo, le strade che hai percorso tante volte.

    Metti da parte le macchine digitali, quelle perfette che difficilmente sbagliano un colpo, che ti fanno vedere la foto prima ancora di averla immaginata. E tiri fuori le vecchie glorie che come sensore hanno un rullino e che per trentasei volte sarà quello e solo quello, senza ripensamenti. E scatti piano, prendendoti il tempo. Anche quello che forse non c’è.

    E non sai quanto tempo ci sarà ancora. Ma hai la confortante speranza che i tuoi passi ed il clic della tua macchina fotografica risuoneranno ancora un po’ quando sarà tornato il silenzio in queste strade amiche.

     

    Via Argine Oglio

     

    Via Volta

     

    Via Valle

     

    Via Ottoponti

     

    Via Manfrassina

     

    Via Valle

     

    Via Podiola

     

    Via Al Ponte

     

    Via Bordenotte

     

    Via Kennedy

     

    Via Val D’Enza

     

    Via Pisacane

     

    Via Cadorna

     

    Via Val D’Enza

     

    Via Case Sparse Casalbellotto

     

    Via Podiola

     

    Via Al Ponte

     

  • Gente del Delta

    Gente del Delta

    Breve viaggio con fotocamera e cuore nelle terre dove il Po va a concludere la sua lunga corsa.

    Càpita che prendi armi e bagagli e ti fai in auto più di 200 chilometri per andare per foto. E ti lasci alle spalle pianura, zanzare, argini, canali di bonifica ed il fiume Po e verso sera arrivi in un luogo i cui ci sono pianura, zanzare, argini, canali di bonifica e Po. A parte le scontate domande esistenziali (“Ma sei scemo?”), ti rendi immediatamente conto che non è affatto vero, almeno non totalmente; sì, ci sono tutti gli elementi riportati ma c’è ben altro: già lungo la strada, oltre ai pioppi sono sempre più numerosi i pini marittimi, poi fai due passi oltre il limite dell’acqua dolce (confine estremamente labile, in questi luoghi, da secoli) e vedi un porto, vedi le barche dei pescatori, il mare o comunque una buona anteprima di esso. E’ il Delta del Po, con tutte le implicazioni che questa definizione porta, con le mille sfaccettature che questi luoghi possono assumere nel breve volgere di pochi chilometri.

    Arrivi alla sera, come detto, ti togli polvere e fatica di dosso con una buona doccia e poi esci, per mangiare qualcosa prima di andare a dormire il più presto possibile, che domani ci si alza molto presto. Ti siedi ad un tavolo all’aperto nel bar/pizzeria/ritrovo del paese e, mentre aspetti la portata, dai un’occhiata interessata ma non invasiva attorno, suppongo ricambiata. E vedi volti di tutte le età e sesso, volti di persone segnate dal sole, dal vento e dal freddo, persone che avrebbero tutte le ragioni per essere arrabbiate con la vita, chiuse, diffidenti – e forse un pochino lo sono – ed invece le senti parlare gioiose, uno con tutti e tutti con l’altro, scambiarsi battute, notizie, anche un semplice saluto solo per far sapere che ci sei ancora. Avverti una sorta di solidarietà, di sentire comune, di senso di appartenenza che altrove è andato purtroppo perduto. Sono le persone che poco tempo fa hanno eretto barricate alle porte del paese per ostacolare l’arrivo di immigrati imposti dall’alto, dal Governo o dalle cooperative; ma sono le stesse persone che molto tempo prima non hanno esitato ad accogliere i profughi provenienti dalla Serbia durante la guerra dei Balcani. L’empatia è conseguente, forse hanno capito che anch’io sono “uno del Po”.

    Il giorno successivo, molto presto, esci in barca con i compagni di workshop e la bravissima Erika Poltronieri, fotografa ed ora anche amica, che ti spiega le cose con una passione che ti fa comprendere che questo, per lei, non è solo lavoro; vai per vedere da vicino le reti, i pali di sostegno delle stesse, le vie d’acqua navigabili ma a me imperscrutabili, i pescatori nel loro elemento naturale, gabbiani, cormorani e sterne che attendono il loro turno per banchettare. Apprendi che da qui viene praticamente la maggior parte della produzione di vongole italiane, per non parlare delle anguille, dei granchi e di numerose altre meraviglie che questo ambiente nutre e custodisce. E capisci che le impressioni della sera prima sono vicine alla realtà: è gente dura, temprata dalla vita, ma che con un sorriso ed una richiesta cortese si apre e si rivela, ti accoglie, ti racconta.

    Il resto della giornata è una continua scoperta di meraviglie, in fin dei conti Etruschi, Romani, Longobardi ed Estensi non sono passati di qui per caso. Che sia un’opera di bonifica, che sia un ponte sui coloratissimi canali che intersecano Comacchio, capitale morale della zona, che si tratti di uno splendido loggiato di 140 arcate o dei casoni di pesca sui rami del Po che corrono verso il mare, tutto è bellissimo e degno di interesse. L’unica cosa che stona un pochino è il meteo, ma su quello, da quando ho ripreso a fotografare, ormai non faccio più affidamento: a parte la piacevolissima brezza marina del mattino in barca, caldo, afa e uno straccio di nuvoletta nemmeno una a pagarla.

    A proposito di foto, visto che comunque ero venuto per questo: mi sono portato di tutto e di più e, se avessi potuto, avrei portato altro. E la mia schiena, a distanza di una settimana, ancora mi augura accidenti. Comunque, dicevo, ho portato con me un corpo macchina, anche se due sarebbero stati l’ideale: uno per usare un teleobiettivo zoom 70-200 mm magari integrato con il teleconverter (ritratti, avifauna, particolari delle attività di pesca) ed uno per i paesaggi, le foto urbane e gli scatti alle costruzioni di pesca, da abbinare ad un 24-70 mm; in alcune situazioni poteva essere utile anche un grandangolo un poco più spinto: ho portato il 16-35 mm ma non l’ho usato perché mi ero stufato di fare cambi d’ottica, quando voglio sono pelandrone. Assolutamente necessari i filtri GND per compensare le differenze di luminosità fra cielo, terra e mare (questa l’ho già sentita…) ed i filtri ND per l’effetto acqua setosa nelle situazioni (ovunque) dove questo elemento è presente.

    Ho fatto diversi scatti, un paio credo siano decenti. Qui pubblico solo quelli in bianco e nero perché oggi gira così; ma altrove, nella galleria del sito o sui social tipo Instagram e Facebook ho pubblicato anche foto a colori, perché questi splendidi luoghi si prestano a tutto. Mi rimane solo la curiosità di ritornarci quando ci sarà un elemento comune a Bassa e Delta e che all’inizio non ho potuto nominare per via della stagione: la nebbia.

     

     

     

  • Tutti gli anni, un giorno

    Tutti gli anni, un giorno

    Quando l’Autunno colora i boschi

    C’è un periodo dell’anno che attendo con trepidazione ed insieme a me, suppongo, tantissimi altri appassionati di fotografia: l’Autunno. Uno potrà anche non amare in modo particolare questa stagione, un po’ perché significa meno ore di luce, la fine delle giornate calde, l’arrivo delle prime nebbie e delle prime piogge insistenti, eccetera ed io non faccio testo perché sono nato in questo periodo dell’anno e perché non amo in modo particolare il caldo estivo, ma dal punto di vista della gratificazione visiva – e, di conseguenza, fotografica – sfido chiunque a pescare alle nostre latitudini una stagione più spettacolare.

    I boschi si colorano del foliage autunnale

    In particolare sono le zone boschive di colline e montagne che indossano la loro veste migliore: le foglie dei vari tipi di piante assumono colori vivaci e quelle che non cambiano mai livrea, tipo gli abeti, collaborano con il loro sempreverde a formare un forte contrasto con i gialli, gli arancioni, i rossi delle altre specie. Senza dimenticare il tappeto color bronzo delle foglie cadute, su cui camminare è un piacere atavico; oppure lo scorrere dei torrenti rivitalizzati dalle piogge, con il loro sussurro nelle zone piane o il fragore dei salti d’acqua; e i profumi della terra bagnata, del legno, delle foglie stesse, dei funghi che spuntano ovunque.

    Fotografare l’Autunno

    E’ perfino superfluo dirlo, ma gli spunti fotografici legati a questi mesi sono innumerevoli: c’è materiale a volontà per il paesaggista, ovviamente; ma anche chi ama fotografare scorci più intimi o, addirittura, il micromondo che popola i boschi, trova occasioni in abbondanza; senza scordare i fotografi naturalisti, che possono sbizzarrirsi a fotografare i grandi mammiferi così come l’avifauna stanziale o di passo.

    Basta indovinare il periodo giusto

    Ecco, mentre per gli altri generi fotografici, una settimana in più o una settimana in meno nel corso del periodo autunnale non fa molta differenza, chi desidera fotografare i paesaggi con il foliage nella sua veste migliore, deve essere bravo e fortunato. Bravo a programmare le sessioni di scatto nei giorni giusti, nei quali la colorazione delle piante raggiunge il suo apice  e non è ancora “troppo verde”; e fortunato, soprattutto fortunato, perché basta un temporale particolarmente forte o alcune ore di raffiche di vento freddo per far cadere la maggior parte delle foglie dagli alberi. E allora è tutto un consultare le previsioni meteorologiche, rapportandole alle altitudini dei luoghi in cui si prevede di scattare le foto e sperando che siano sufficientemente precise nel medio periodo di una settimana; si ritorna con la memoria alla stagione estiva appena trascorsa, facendo mente locale sulle precipitazioni che ci sono state e sulla loro abbondanza, per stabilire se le piante possano o meno aver sofferto della siccità e quindi essere più avanti con il periodo in cui le foglie cambiano colore o cadono; si consultano in continuazione le webcam dei rifugi montani per cercare di capire a che punto è la colorazione del bosco; si contrattano giorni di ferie con l’ambiente lavorativo cercando di ottenere un paio di giorni nelle settimane “strategiche” del periodo, ed avere qualche ora in più da dedicare alla trasferta fotografica; si  controlla minuziosamente l’attrezzatura, sia quella fotografica che quella da trekking, per essere pronti ad ogni evenienza. E si fanno anche parecchi chilometri a vuoto, recandosi in un luogo che si ritiene pronto per essere fotografato per poi scoprire che no, è troppo presto, occorre tornare la prossima settimana, quando la colorazione sarà all’apice del suo splendore. Sempre meglio, in ogni caso, di arrivare da qualche parte per constatare che il vento della sera precedente ha fatto piazza pulita del fogliame e sono rimasti solo tronchi e rami scheletrici. E capita, eccome: non più tardi di due anni fa avevo solo un giorno a disposizione per la trasferta fotografica e mi sono fatto un paio di ore di auto, più un’ora abbondante di salita a piedi, carico di attrezzatura, solo per scoprire che avrei potuto esclusivamente fotografare la silhouette degli alberi, perché il fogliame era tutto a terra. E allora niente: si esclama qualche “accipicchia”, ci si trasforma di colpo in fotografi macro e si cerca di portare a casa lo scatto di qualche bella castagna o di un fungo particolarmente espressivo e ci si ripromette di essere più previdenti il prossimo anno, di trovare un giorno giusto.

    Cosa portare nello zaino

    Bel dilemma, come sempre. Si vorrebbe avere con sé tutto l’arsenale, per poter avere la possibilità di fotografare il paesaggio con l’obiettivo grandangolare, ma anche sfruttare la compressione dei piani utilizzando il teleobiettivo, oppure un obiettivo macro per i preziosi particolari del bosco. Ma tutto ciò si scontra fatalmente con le camminate impegnative che bisogna spesso affrontare per raggiungere i luoghi di scatto. E allora, a meno di avere un mulo per amico (o un amico mulo), conviene operare delle scelte, dolorose ma necessarie. Ovviamente mi guarderò bene dal consigliare una configurazione di obiettivi piuttosto che un’altra: tutto dipende dai gusti e dalla sensibilità personale. Per quel che mi riguarda ho imparato, a mie spese, a “limare” sempre di più il contenuto dello zaino: in genere porto con me la reflex o, visti i recenti sviluppi, la mirrorless; come obiettivo principale scelgo spesso lo zoom 16-35mm, in genere affiancato dal 24-70mm; mi riservo di portare il 70-200mm solo se prevedo di raggiungere un punto elevato o, comunque, panoramico. Anche se un poco ingombranti, non posso fare a meno di infilare nello zaino i filtri, soprattutto il polarizzatore ed un filtro ND per le lunghe esposizioni; cavo di scatto remoto, batterie e schede di memoria di riserva e, naturalmente, il treppiede, croce e delizia dei fotografi ma, a mio parere, oggetto pressoché indispensabile.

     

     

     

     

     

     

     

  • Il “Campo Giochi” all’infrarosso, lo scatto passo dopo passo

    Il “Campo Giochi” all’infrarosso, lo scatto passo dopo passo

    La fotografia digitale all’infrarosso è oramai alla portata di tutti: i costi decisamente contenuti per l’attrezzatura e i tutorial pubblicati su internet da fotografi specializzati, aiutano ad affrontare questa tecnica fotografica con relativamente pochi patemi d’animo. Intendiamoci: alcuni “segreti” vengono comunque gelosamente custoditi, ma i passi base per ottenere e post-produrre dignitosamente una foto all’infrarosso sono di pubblico dominio.

    Io non sono affatto uno specialista di questa tecnica, anzi; però ho deciso ugualmente di cimentarmi perché mi offre la possibilità di fotografare ciò che preferisco  – paesaggi – in momenti del giorno in cui gli altri fotografi rientrano nelle bare, rifuggendo la dura ed impietosa luce della metà giornata quasi fossero vampiri. Ovviamente scherzo, su vampiri e bare, ma non sul discorso illuminazione: è ormai noto che la fotografia all’infrarosso ha bisogno di una elevata illuminazione e che, proprio per le sue caratteristiche, i risultati migliori si ottengono scattando nelle ore centrali della giornata e non all’alba o al tramonto come nelle foto di paesaggio “tradizionali”. In pratica è una tecnica fotografica che permette ai patiti di non fermarsi mai e scattare anche nei tempi normalmente considerati “morti” a causa della luce sfavorevole.

    In questa sede non scriverò di post produzione: esistono svariate scuole di pensiero, tutte validissime, ma sarebbe necessario prima di tutto conoscerne i contenuti (tutti i contenuti e non solo spizzichi e bocconi e, se qualcuno si sente tirato per le orecchie, beh la mia intenzione è proprio quella) e poi parlarne diffusamente. Magari ci ritorneremo. Qui desidero semplicemente raccontarvi come effettuo lo scatto, con quale attrezzatura e il procedimento.

    Prima di tutto la fotocamera: ho acquistato (nuova perché sono decisamente pignolo, con sconfinamenti nella maniacalità) una Nikon D90, ad un prezzo molto conveniente ma, volendo, si possono trovare ottime macchine usate a prezzi ancora migliori, vista la non più verde età del modello in questione. L’ho fatta successivamente  modificare per adattarla alla fotografia all’infrarosso presso un laboratorio di fiducia. Ricordate sempre che queste modifiche sono praticamente irreversibili; quindi ricorrete ad esse solo se siete convinti di quello che state facendo, perché dopo la stessa fotocamera non potrà più essere utilizzata per scattare foto “normali”.  Comunque, dicevo, procedo in questo modo:

    1. scelgo il luogo dove scattare le foto, preferibilmente in posti in cui sia presente una discreta vegetazione (alberi, cespugli, prati, anche coltivazioni) e, ancor meglio, un corso o uno specchio d’acqua; come noto, nelle fotografie IR, la vegetazione apparirà molto chiara, quasi bianca mentre invece cielo ed acqua verranno resi molto scuri, creando un contrasto di notevole intensità; da ricordare che, proprio grazie alle sue peculiarità, questa tecnica eliminia notevolmente la foschia atmosferica, quindi niente paura se, al momento di uscire per fotografare, l’atmosfera si presenta di quell’azzurrognolo fosco che fa passare la voglia di scattare foto;
    2. scelgo, come detto, una giornata soleggiata; se poi sono presenti in cielo nuvole e nuvolette, per me è il massimo; il sole cerco di averlo lateralmente, per motivi che trovo offensivo spiegarvi;
    3. piazzo il treppiede perchè, oltre a garantire stabilità alla fotocamera ed evitare il mosso, mi consente di mettere a fuoco con discreta precisione e prendendomi tutto il tempo che mi serve per inquadratura e scatto;
    4. come obiettivo preferisco usare un grandangolare, per enfatizzare soprattutto il cielo, visto che nella foto ad infrarossi questo appare, come detto, scuro ed il contrasto con le nuvole dona drammaticità ed un effetto che amo tantissimo; più precisamente mi affido allo zoom Nikon 10-24 mm che è nel formato DX adatto alla D90 (corrisponderebbe, grosso modo, alle focali 15 – 36 mm sul formato 35 mm).
    5. utilizzo sempre il telecomando (nel mio caso un Nikon ML-L3 ad infrarossi) per la solita questione di evitare il mosso;
    6. compongo l’inquadratura e metto a fuoco manualmente utilizzando il live view sullo schermo LCD della fotocamera e tengo contemporaneamente oscurato il mirino con l’accessorio apposito (o anche con un pezzo di nastro adesivo scuro) per evitare infiltrazioni indesiderate di luce; considero questo accorgimento di utilizzare il live view abbastanza importante, perché ho notato che, dopo la modifica alla fotocamera, la precisione dell’autofocus lascia un pochino a desiderare. Occorre tenere presente che, vista la elevata luminosità presente in quelle ore della giornata, non è proprio semplicissimo comporre e focheggiare utilizzando lo schermo della fotocamera, a causa dei riflessi; ecco perché dicevo prima che cerco di utilizzare sempre il treppiede: mi consente di avere entrambe le mani libere ed usarle per cercare di schermare dalla luce l’LCD o, meglio ancora, di usare un accessorio molto valido che si comporta come un mirino da applicare sullo schermo stesso della macchina fotografica, lo Hoodman Loupe (ne esistono differenti versioni e modelli); prossimamente voglio esagerare e provare ad utilizzare un piccolo schermo LCD da 7 pollici, opportunamente schermato, che si collega alla fotocamera con cavo USB: vi saprò dire;
    7. generalmente uso un diaframma generoso, per cercare di avere una buona leggibilità su tutto il fotogramma, solitamente f/11;
    8. eseguo un primo scatto e, se in visualizzazione noto che le aree della vegetazione sono troppo chiare, al limite del “bruciato”, rieseguo lo scatto compensando l’esposizione di 1 o anche 2 stop; poi, sullo schermo del computer, mi renderò meglio conto di quale fotogramma sia meglio utilizzare ma, almeno, ho materiale su cui posso lavorare.

    Tutto qui, nulla di trascendentale. Solo, come sempre, qualche accorgimento tecnico, molta attenzione e tanta calma, non stiamo fotografando una gazzella da immortalare al volo altrimenti fugge.

    Ah, e perché il “Campo Giochi” del titolo? E’ presto detto: è uno scherzo fra amici pescatori; si tratta di un una sezione di canale di irrigazione e bonifica della Bassa padana il cui vero nome è Corte Pizzo, decisamente accogliente, in cui ci troviamo spesso con la scusa di una pescata in compagnia (pesce tassativamente rilasciato in buona salute alla fine, ci tengo a dirlo) ma con il vero fine di una grigliata all’aperto, con tutto ciò che ne consegue. E poiché in autunno ed inverno il canale viene prosciugato quasi completamente e la vegetazione non è più ovviamente rigogliosa, l’unico periodo buono per fotografarlo è nella stagione calda, caldissima.

  • Il ponte di campagna

    Il ponte di campagna

    Le opere di bonifica hanno rappresentato nei decenni e rappresentano tutt’ora, un importantissimo processo di trasformazione del territorio italiano e di quello Padano in particolare. In diversi momenti storici, partendo dall’epoca Romana per arrivare fino al periodo fascista, sono stati pianificati ed attuati moltissimi interventi di regolamentazione delle acque per attivare un risanamento dei territori ed ottenere maggiori estensioni di terreni coltivabili. Tralasciando gli inevitabili riflessi sociali che queste gigantesche opere determinarono, sono tutt’ora evidenti i risultati tangibili che esse produssero: una rete di migliaia di chilometri di canali di svariate dimensioni e destinazioni, ferrovie, corti coloniche, strade e carraie, per non parlare degli impianti idrovori che si vedono un po’ ovunque.

    Proprio la molteplicità delle opere e come queste si sono gradualmente “integrate” con il territorio, costituiscono una ghiotta occasione fotografica: ci sono, come detto, le gigantesche e architettonicamente interessanti idrovore di sollevamento delle acque in prossimità del Po e dei sui affluenti principali; ci sono carraie che costeggiano i canali che sono diventate habitat di numerosissime specie animali e vegetali; ci sono gli argini, ci sono gli invasi (lanche) che consentono l’espansione relativamente tranquilla delle piene del Po, ci sono i pioppeti che sono ormai una costante nei territori ricchi d’acqua.

    E poi ci sono i piccoli canali di irrigazione, un gradino sopra nella gerarchia ai semplici fossi, nascosti nella campagna, lontani dalle strade di passaggio oppure vicinissimi ma occultati dalla vegetazione, che offrono scorci a volte impensati e sorprendenti, magari arricchiti da un ponticello ad arco in pietra, che sono per chi ama fotografare come il miele per gli orsi.

    Ne ho trovato uno in particolare che mi affascina e che è entrato di diritto negli appunti fotografici dei luoghi da visitare spesso, in diverse stagioni e in diverse condizioni atmosferiche. Intanto ho fatto i primi scatti. Mica facile rendergli giustizia ma, come al solito, cerco di ottenere il meglio che posso dalle mie scarse attitudini fotografiche.

     

     

  • Come ritrovare una vecchia amica

    Come ritrovare una vecchia amica

    No, non è una puntata di una di quelle trasmissioni televisive che si adoperano per ritrovare persone scomparse. E’ l’esternazione della felicità di aver ritrovato una vecchia conoscenza, uno di quegli oggetti (termine un po’ freddo) che ci hanno accompagnato nel passato e di cui si avverte un po’ la nostalgia. Avete presente quando lo squalo individua una preda ed inizia a compiere giri concentrinci sempre più stretti fino a che raggiunge il suo obiettivo? Bene, mi sono comportato allo stesso modo con la Yashica FX3 Super 2000: ho continuato a spulciare le vendite on-line finché ho individuato ed acquistato ciò che volevo. Un venditore giapponese (che Dio benedica la precisione nipponica e la cura con cui conservano le fotocamere) aveva giusto quello che cercavo con, in più, l’obiettivo commercializzato a suo tempo in kit, il 50mm f/1.9 sempre Yashica. E, nel giro di una decina di giorni, con un occhio al calendario e l’altro al sito di tracking delle spedizioni, ho ricevuto un esemplare di quella che è stata la mia prima macchina fotografica. Per di più in condizioni ottimali. Poi c’è scappato anche un 20mm f/3.8 Cosina/Contax, giusto per essere un po’ più sul pezzo in argomento di paesaggi, ma lì è stata colpa del venditore che ha insistito per farmelo acquistare…

    Giusto il tempo di arrivare a casa, spacchettare un paio di rullini che avevo già tolto dal frigorifero (letteralmente) per l’evento e via a fotografare nella campagna circostante, un po’ per comodità e un po’ perché c’erano alcune situazioni interessanti che non ho voluto fotografare in digitale ma che ho deciso di “conservare” per fare il test al nuovo acquisto. Intendiamoci: niente opere d’arte, avete sbagliato fotografo. Solo alcuni scatti in libertà, mi verrebbe da dire in scioltezza, con le dita che trafficavano con esperienza sui tasti già noti e il mezzo sorriso da deficiente stampato in volto per la felicità.

    Alla fine, nel giro di pochi giorni, ho scattato due rullini negativi a colori di Kodak Portra 160 (foto con watermark in nero) e un rullino di diapositive Fuji Velvia 100 (foto con watermark in bianco). I risultati, un po’ per le caratteristiche intrinseche di queste due pellicole e anche per i diversi momenti di scatto, sono ovviamente eterogenei e come tali ve li propongo.

    In questo testo (“Yashica FX3, l’inizio”) se vi interessa, potrete leggere un po’ di storia della fotocamera. Per quel che mi riguarda, ho già riservato un posto d’onore alla Yashica FX3 vicino alle mie “vecchiette” Nikon, perché i ricordi vanno trattati bene. E’ tutto ciò che ci resta dei momenti felici passati.

  • La tëra

    La tëra

    Passeggiando per la campagna circostante il mio paese ho notato casualmente un filare di vite come non mi capitava di vedere ormai da diverso tempo, una forma di coltivazione dell’uva ormai in disuso ovunque, soprattutto nelle zone agricole a dominante vocazione vitivinicola: la tëra.

    Viene così definito in dialetto della bassa mantovana (altrove non ne ho idea) il filare di vite che orna i limiti delle coltivazioni formato, ovviamente, da piante di vite che vengono lasciate crescere notevolmente, e i cui tralci si allungano a destra e a sinistra della pianta stessa trovando appiglio su pali orizzontali fissati appositamente per favorirne l’appoggio. Questa struttura arriva a formare una sorta di galleria doppia, separata  al centro dai vitigni stessi e da altre piante, come querce e noci, che si trovano già nel filare o che vengono messe appositamente, offrendo un ulteriore sostegno alla struttura che si crea progressivamente.

    Non sono un esperto, anzi al contrario, ma credo che questo tipo di coltivazione della vite avesse come scopo quello di ottenere una produzione maggiore di uva a discapito (come dicono quelli che hanno studiato) della qualità del vino.

    In realtà, essendo un fervido sostenitore del lambrusco e trovando i moderni e asettici filari del vino “buono” (magari fermo come l’acqua di una pozzanghera e pastoso come una cucchiaiata di sapone), tutti cemento e fil di ferro con quattro foglie di vite in croce perché altrimenti si perde di percentuale zuccherina, ho rivisto con nostalgia profonda la tëra, perché mi sono tornati in mente i giorni trascorsi  in campagna dagli zii contadini, quando queste volte di foglie profumate erano un ombroso riparo dai raggi cocenti del sole al momento della merenda e ci si sedeva alla loro ombra a mangiare un panino col salame e qualche frutto; oppure i pomeriggi dell’infanzia trascorsi a giocare con gli amici, in cui le lunghe gallerie delle tëre si trasformavano nei corridoi di un palazzo di fantasia, in cui correre e giocare a nascondino. E che meraviglia la stagione della vendemmia, quando gli adulti tagliavano i pesanti grappoli e li riponevano con cura nelle grosse casse di legno e noi bambini ci ingegnavamo a rubare un chicco d’uva come se fino ad allora non fosse mai stata disponibile sulla pianta.

    Ma il mondo è andato avanti (?), le tëre scompaiono progressivamente e al posto di un bicchiere di lambrusco senza grilli per la testa ci dobbiamo sorbire quelli che hanno studiato che, calice alla mano (il bicchiere no, il bicchiere è volgare) ci dicono che quella roba slavata che sballottano nel vetro è un sauvignon dal colore ambrato, dall’odore fruttato con un retrogusto di nocciole delle Langhe cresciute in un campo di tarassaco.

    Poveri noi!

  • Val de Morins

    Val de Morins

     

    Capita che fai un giro in una valle laterale dell’Alta Badia, un po’ nascosta forse, e di colpo ti ritrovi immerso in una atmosfera che ti ricorda il Midwest statunitense, con le baruffe, anche a base di fucilate, fra i clan familiari che abitano quelle zone e…

    D’accordo, ho letto troppo e visto altrettanti troppi film.

    In realtà la valle del Rio Seres è nota come Valle dei Mulini, Val de Morins, per la presenza lungo il suo corso di numerose macchine idrauliche. Nel tratto tra i due centri di Seres e Miscì, posti rispettivamente sulla sinistra e sulla destra del torrente, sono concentrati otto mulini ad acqua, due dei quali dotati di una doppia ruota, ed una teleferica ad acqua. Come spesso accade, si rimane a bocca aperta al pensiero di quanta ingegnosità e di quanta fatica sia occorsa all’uomo per costruire e far funzionare queste strutture, in un ambiente non agevole e con mezzi limitati. E se non ci si pensa, pazienza: basta la bellezza del luogo e l’armonia con cui queste teoricamente invasive costruzioni si integrano con esso a stupire. Io, poi, sono fatto alla rovescia, non badateci: mi emoziona molto di più vedere una baracca in pietra e legno che serviva per dar da mangiare alle persone piuttosto che un anfiteatro dove le persone ci lasciavano le penne. Purtroppo queste splendide opere non sono più utilizzate, se non periodicamente per scopo dimostrativo in favore dei turisti. Mi è stato spiegato che da queste parti non si coltiva più il grano ed i mulini sarebbero “disoccupati”.

    Prendo la spiegazione per buona ma mi rattristo ugualmente.

     

  • Il pioppeto

    Il pioppeto

    Il pioppeto – William Cowper

     

    Hanno abbattuto i pioppi, addio all’ombra

    e al mormorio del fresco colonnato,

    il vento piu’ non gioca ne’ canta tra le foglie,

    la loro immagine piu’ l’Ouse non riceve.

    Dodici anni fa scoprii un giorno

    l’amato boschetto e la riva dei pioppi,

    e ora nell’erba sono affondati

    e sedile mi fa chi ombra mi diede.

    Il merlo fuggito ad altro riparo,

    tra noccioli ha trovato rifugio alla calura,

    più non risuona la sua dolce voce

    sulla scena che tanto mi aveva incantato.

    Brevi scompaiono i miei anni,

    presto coi pioppi dovro’ giacere,

    una zolla sul petto, una pietra sul capo,

    prima che un bosco sul posto rinasca.

    La vista m’invita, piu’ d’ogni altra cosa,

    a meditare sugli effimeri piaceri umani:

    la vita e’ sogno, ma il piacere si consuma

    più rapido del respiro di un uomo.

     

    In memoria dell’amico Mauro

  • Io odio l’estate

    Io odio l’estate

    O almeno parecchi aspetti di essa. Questa avversione si mitiga nelle fresche mattinate che seguono ad un temporale notturno (rarità, ormai) ma il sentimento permane. Il vecchio, caro, rassicurante Anticiclone delle Azzorre si fa vedere sempre più raramente; ho persino il timore che non esistano più nemmeno le Azzorre. Indubbiamente tutto ciò è influenzato dal luogo in cui vivo, una zona in cui spesso al caldo si aggiunge l’umidità e allora son dolori.

    E io, genio incompreso, che ti faccio a questo punto? Niente, per esoricizzare il caldo, per fargli capire che, prima di stramazzare al suolo privo di sensi, il più forte sono io, penso bene di pianificare alcuni scatti dedicati a questa stagione, all’aspetto che assumono i luoghi a me familiari sotto la calura estiva: quindi una lotta con colori spesso appiattiti dalla troppa luce, cieli azzurro-insulso tendenti al bianco, ombre in alcuni casi dure in altri totalmente assenti.  Di conseguenza poche foto all’alba, niente foto notturne, ma essenzialmente foto scattate quando il sole picchia anche se sta sopraggiungendo la sera, senza uno straccio di nuvola all’orizzonte ad ammorbidire la scena e a sollevarmi il morale.

    E, non contento, penso bene di costringermi a scattare questa serie di foto con la pellicola, utilizzando una fotocamera analogica, ma tanto analogica, come la Mamiya RB67, che è talmente analogica da non avere nemmeno l’esposimetro incorporato, obbligandomi così a starci ancor di più, sotto al sole impietoso, per misurare con l’esposimetro manuale le varie luminosità della scena. Unica compagnia il cane fedele che, sdraiato in auto, mi avvisa se l’aria condizionata è a posto così o se devo alzare.

    Il risultato? Alcuni negativi (Kodak Portra 120 400 iso) 6×7 da passare nello scanner che restituiscono abbastanza fedelmente quello che volevo memorizzare e condividere: attimi di una stagione che proprio non riesco a farmi piacere, bellezza che sembra rimanere immobile per salvaguardre le residue energie rimaste, per sopravvivere.

    Aspettando l’Autunno, rimpiangendo la Primavera e rivalutando l’Inverno.

     

     

  • Frammenti d’Autunno

    Frammenti d’Autunno

    Mah, ci sono quelle volte che prendo la macchina fotografica e parto, ma senza troppa convinzione. Il cielo così così, la prospettiva di fare una decina di chilometri a piedi nel bosco fangoso dopo le abbondanti piogge e l’acqua di piena del Po che inizia a salire, nessun volontario che abbia il buon cuore di accompagnarmi, nemmeno il cane che, se fosse per lui, verrebbe a gambe levate ma è periodo di caccia e non credo proprio che sia il caso.

    Però parto ugualmente, stivali al ginocchio e pettorina giallo fluo: non devo cambiare una gomma nel bosco ma mi serve perché qualche doppietta che non accetta di tornare a carniere vuoto non cambi i connotati a me. Mi porto solo la macchina ed un obiettivo, l’adorato zoom tuttofare 16-35, un paio di filtri e l’indispensabile treppiede, visto che la luce scarseggia e i tempi rapidi di scatto saranno una chimera.

    Vado nella zona di golena vicina al Po, la piena è imminente, in alcune zone un po’ più in basso l’acqua sta già avanzando silenziosa ma inesorabile, in lontananza si sente il ruggire del gigante d’acqua.  Con somma gioia vedo che alcuni frammenti d’Autunno sono rimasti: non tutte le piante sono spoglie e, anzi, alcune  hanno conservato piacevolissime note di colore. Da una macchia parte a razzo un capriolo emigrato dall’Appennino: riesco a malapena a fotografarlo con gli occhi, figuriamoci se ce la faccio con la fotocamera.

    Poi esce il sole, che per pochi attimi illumina e colora quei particolari che cerco maldestramente di fotografare. E d’un tratto dimentico fatica, umidità, il fango che mi tappezza. E non mi pento di essere uscito.

  • Acqua sopra, acqua sotto

    Acqua sopra, acqua sotto

    cascata-lago-santo

    Non esiste buono o cattivo tempo, ma solo buono o cattivo equipaggiamento.” è un aforisma di Robert Baden-Powell, il fondatore degli Scouts, quanto mai di attualità in questo periodo dell’anno. Ed aveva ragione, grosso modo. Non è il caso di farsi scoraggiare da un meteo così così per uscire per foto, anzi.

    Ci sono situazioni particolari in cui il cielo parzialmente nuvoloso, la presenza di pioggerella che lava la polvere estiva e contribuisce a rendere brillanti i colori molto più di quanto accada in una giornata di sole battente, il venticello di ispirazione siberiana che tiene lontani i rompi… , volevo dire, il venticello fresco che accarezza le ultime foglie rimaste sui faggi, insomma, dicevo, in queste situazioni è addirittura preferibile andare in certi luoghi a far foto.

    Esempio? Il Lago Santo nell’Appennino parmense. In un angolino c’è un torrente immissario che, poco prima di fondere le sue acque con il lago, forma alcune cascatelle incastonate in grossi massi, su molti dei quali si è formato un muschio (? mi serve un botanico) che definire verde brillante è un eufemismo; le foglie verdi, gialle ed arancio cadute qua e là impreziosiscono la vista con macchie di colori vivaci. E se tutto ciò lo vedessimo sotto un sole brillante sarebbe, sì, bello, ma nulla di paragonabile all’atmosfera dell’autunno.