Breve viaggio con fotocamera e cuore nelle terre dove il Po va a concludere la sua lunga corsa.
Càpita che prendi armi e bagagli e ti fai in auto più di 200 chilometri per andare per foto. E ti lasci alle spalle pianura, zanzare, argini, canali di bonifica ed il fiume Po e verso sera arrivi in un luogo i cui ci sono pianura, zanzare, argini, canali di bonifica e Po. A parte le scontate domande esistenziali (“Ma sei scemo?”), ti rendi immediatamente conto che non è affatto vero, almeno non totalmente; sì, ci sono tutti gli elementi riportati ma c’è ben altro: già lungo la strada, oltre ai pioppi sono sempre più numerosi i pini marittimi, poi fai due passi oltre il limite dell’acqua dolce (confine estremamente labile, in questi luoghi, da secoli) e vedi un porto, vedi le barche dei pescatori, il mare o comunque una buona anteprima di esso. E’ il Delta del Po, con tutte le implicazioni che questa definizione porta, con le mille sfaccettature che questi luoghi possono assumere nel breve volgere di pochi chilometri.
Arrivi alla sera, come detto, ti togli polvere e fatica di dosso con una buona doccia e poi esci, per mangiare qualcosa prima di andare a dormire il più presto possibile, che domani ci si alza molto presto. Ti siedi ad un tavolo all’aperto nel bar/pizzeria/ritrovo del paese e, mentre aspetti la portata, dai un’occhiata interessata ma non invasiva attorno, suppongo ricambiata. E vedi volti di tutte le età e sesso, volti di persone segnate dal sole, dal vento e dal freddo, persone che avrebbero tutte le ragioni per essere arrabbiate con la vita, chiuse, diffidenti – e forse un pochino lo sono – ed invece le senti parlare gioiose, uno con tutti e tutti con l’altro, scambiarsi battute, notizie, anche un semplice saluto solo per far sapere che ci sei ancora. Avverti una sorta di solidarietà, di sentire comune, di senso di appartenenza che altrove è andato purtroppo perduto. Sono le persone che poco tempo fa hanno eretto barricate alle porte del paese per ostacolare l’arrivo di immigrati imposti dall’alto, dal Governo o dalle cooperative; ma sono le stesse persone che molto tempo prima non hanno esitato ad accogliere i profughi provenienti dalla Serbia durante la guerra dei Balcani. L’empatia è conseguente, forse hanno capito che anch’io sono “uno del Po”.
Il giorno successivo, molto presto, esci in barca con i compagni di workshop e la bravissima Erika Poltronieri, fotografa ed ora anche amica, che ti spiega le cose con una passione che ti fa comprendere che questo, per lei, non è solo lavoro; vai per vedere da vicino le reti, i pali di sostegno delle stesse, le vie d’acqua navigabili ma a me imperscrutabili, i pescatori nel loro elemento naturale, gabbiani, cormorani e sterne che attendono il loro turno per banchettare. Apprendi che da qui viene praticamente la maggior parte della produzione di vongole italiane, per non parlare delle anguille, dei granchi e di numerose altre meraviglie che questo ambiente nutre e custodisce. E capisci che le impressioni della sera prima sono vicine alla realtà: è gente dura, temprata dalla vita, ma che con un sorriso ed una richiesta cortese si apre e si rivela, ti accoglie, ti racconta.
Il resto della giornata è una continua scoperta di meraviglie, in fin dei conti Etruschi, Romani, Longobardi ed Estensi non sono passati di qui per caso. Che sia un’opera di bonifica, che sia un ponte sui coloratissimi canali che intersecano Comacchio, capitale morale della zona, che si tratti di uno splendido loggiato di 140 arcate o dei casoni di pesca sui rami del Po che corrono verso il mare, tutto è bellissimo e degno di interesse. L’unica cosa che stona un pochino è il meteo, ma su quello, da quando ho ripreso a fotografare, ormai non faccio più affidamento: a parte la piacevolissima brezza marina del mattino in barca, caldo, afa e uno straccio di nuvoletta nemmeno una a pagarla.
A proposito di foto, visto che comunque ero venuto per questo: mi sono portato di tutto e di più e, se avessi potuto, avrei portato altro. E la mia schiena, a distanza di una settimana, ancora mi augura accidenti. Comunque, dicevo, ho portato con me un corpo macchina, anche se due sarebbero stati l’ideale: uno per usare un teleobiettivo zoom 70-200 mm magari integrato con il teleconverter (ritratti, avifauna, particolari delle attività di pesca) ed uno per i paesaggi, le foto urbane e gli scatti alle costruzioni di pesca, da abbinare ad un 24-70 mm; in alcune situazioni poteva essere utile anche un grandangolo un poco più spinto: ho portato il 16-35 mm ma non l’ho usato perché mi ero stufato di fare cambi d’ottica, quando voglio sono pelandrone. Assolutamente necessari i filtri GND per compensare le differenze di luminosità fra cielo, terra e mare (questa l’ho già sentita…) ed i filtri ND per l’effetto acqua setosa nelle situazioni (ovunque) dove questo elemento è presente.
Ho fatto diversi scatti, un paio credo siano decenti. Qui pubblico solo quelli in bianco e nero perché oggi gira così; ma altrove, nella galleria del sito o sui social tipo Instagram e Facebook ho pubblicato anche foto a colori, perché questi splendidi luoghi si prestano a tutto. Mi rimane solo la curiosità di ritornarci quando ci sarà un elemento comune a Bassa e Delta e che all’inizio non ho potuto nominare per via della stagione: la nebbia.
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