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  • Un po’ meglio, ma…

    Un po’ meglio, ma…

    Lo scorso ottobre, in chiusura del testo “Gas Station” scrivevo così:

    “Edit: sono soddisfatto del risultato? Ni. Mi aspettavo qualcosa di diverso dalla resa della pellicola (che, fra l’altro, ha un tipo di sviluppo un po’ particolare).

    E quindi? E quindi ho trovato, con una buona dose di … fortuna, un paio di rullini Cinestill 800. Ho intenzione di rifare tutto: foto, notti all’addiaccio, incontri più o meno graditi, controlli, eccetera. Se fortuna e meteo mi aiutano, vi tengo aggiornati. Ad maiora.”

    E’ passato qualche mese, ho avuto modo di usare uno di quei famosi rullini Cinestill 800T di cui scrivevo, il meteo non ha poi collaborato molto (poca nebbia, pochissima pioggia, niente neve), io sono ancora insoddisfatto ed il motivo è presto detto: la scansione dei negativi delle foto scattate sembra la pubblicità del Grana Padano.

    Ora: va bene l’emulsione sensibile con tutto quello che questo comporta, va bene il tempi relativamente lunghi di posa (in realtà non lunghissimi), va bene tutto ma la scansione non manipolata veramente è inguardabile.

    Ed a questo punto la domanda sorge spontanea: come caspita fanno gli ammmericani che mettono le foto delle loro bellissime stazioni di servizio, delle tavole calde solitarie su routes sperdute, eccetera, che dichiarano di usare Cinestill 800 ma le foto sono lisce come il vetro? Io una mezza idea me la sono fatta: le foto sono elaborate alla morte in camera chiara (Lightroom o Photoshop) perché altrimenti non si spiega. Va bene che io sono scarso, ma non così scarso.

    E la prova del nove l’ho avuta mettendo mano alle scansioni con Lightroom: via il rumore di luminanza come se non ci fosse un domani (la crominanza tutto sommato tiene) e qualcosa di guardabile si ottiene. Ripeto: non mi piace assolutamente il risultato e sapere quello che ho combinato in camera chiara mi lascia comunque un senso di insoddisfazione e, di conseguenza, dovrò percorrere strade alternative. Perché ormai è diventata una questione di principio.

    Di nuovo: ad maiora.

  • Gas station

    Gas station

    Le stazioni di servizio come isole di luce nella notte.

    Probabilmente si tratta di un collegamento forzato, sicuramente irriverente, ma l’idea del mini progetto “Gas station” mi è balzata in mente osservando una riproduzione del famoso dipinto del pittore statunitense Edward Hopper “I nottambuli”, con la sua atmosfera di buia quiete notturna, in cui la vetrina della tavola calda appare come una astronave sospesa nell’oscurità ed ospitale per gli avventori, presumibilmente ognuno con la propria storia e le proprie peculiarità.

    Ecco, in qualche modo, considero le stazioni di servizio aperte in orario post serale una sorta di isola di approdo per i viaggiatori della notte, una piattaforma salvifica, rigenerante, per coloro che dopo un lungo o breve viaggio che sia, hanno necessità di rifornire il proprio mezzo di trasporto e se stessi (ammesso che il bar sia aperto). Dalle nostre parti, se si escludono gli autogrill autostradali, è relativamente recente la disponibilità notturna delle stazioni di servizio. E’ decisamente più radicata oltreoceano l’abitudine di offrire un servizio continuo agli utenti della strada. Tanto è vero che, per dirla tutta, la mia idea di fotografare le “gas station” di notte è decisamente poco originale, perché c’è una letteratura fotografica sterminata all’estero, di questo tipo di scatti, soprattutto negli Stati Uniti e, vedo, in alcuni paesi dell’est europeo. Però vale sempre il solito discorso: fino a che una foto non l’ho fatta io, non esiste o, meglio, non esiste fatta da me.

    Per fare pratica e per facilitarmi un poco la conoscenza delle problematiche di scatto, ho fatto le prime foto utilizzando la fotocamera digitale, la Nikon Z7 in abbinamento con il Nikkor Z 14-24 f/2,8, che, avendo il visore che riproduce immediatamente il risultato ottenuto, mi ha dato indicazioni sulle opzioni di scatto disponibili e più efficaci a mio giudizio. Ma l’idea “completa” era di portare avanti questo progettino con la fotocamera analogica, di fare le foto utilizzando la pellicola, anche per ricreare una sorta di atmosfera pittorica vagamente (molto vagamente) somigliante a quella del bellissimo dipinto di Hopper.

    Ho pensato fosse necessaria una pellicola relativamente sensibile, che fosse in grado di registrare l’atmosfera notturna senza tempi di scatto biblici ma, allo stesso tempo, non avesse troppa grana, caratteristica delle foto analogiche che mi piace ma senza estremismi. Ho trovato fra le pellicole da 35 mm disponibili, una pellicola colore Iso 500 marcata Silbersalz35 500T che non so da dove venga e che, sospetto, sia comunque un prodotto a base Kodak. L’ho montata sulla Nikon F6 ed ho utilizzato il “vecchio” zoom Nikkor 14-24 f/2,8 G che, seppur essendo stato scalzato dal suo trono dal corrispondente 14-24 Z per le mirrorless, è ancora in grado di fare la sua (scusate) porca figura e tutt’ora capace di distanziare parecchie lenti prime blasonate; non ho fotografato ponendo l’obiettivo in piano volutamente, per esasperare la distorsione prospettica. Ovviamente uso obbligatorio del treppiede e del cavo di scatto per evitare le vibrazioni letali con i tempi di scatto necessari, aggiungendo, come ulteriore prudenza, l’alzo preventivo dello specchio.

    Le problematiche intrinseche a questo tipo di scatti sono molteplici: innanzi tutto quelle tecniche, che ho cercato di risolvere con la metodologia di scatto appena descritta. Non l’ho scritto ma credo che sia facilmente intuibile dalle foto: la differenza di luminosità fra le strutture (pensilina, travi, locali del distributore) e le luci spesso molto brillanti che illuminano l’area è notevole e si tratta di trovare una sorta di compromesso di esposizione, fermo restando che, nelle mie intenzioni, c’era la volontà di riprodurre l’atmosfera notturna il più buia possibile in contrasto con l’isola di luce della stazione di servizio, la famosa  astronave sospesa nell’oscurità di cui vi dicevo; a tale scopo è essenziale evitare lo scatto quando sulla strada prospiciente il distributore stanno transitando delle auto, i cui fanali sono un elemento di disturbo nell’immagine, senza contare che possono facilmente ingannare il lavoro dell’esposimetro.

    Come ho conciliato la situazione meteo con le foto? In un primo tempo ho aspettato le serate limpide, magari con un filo di brezza che “pulisse” l’aria da umidità e foschia, con l’intento di ottenere la migliore nitidezza possibile. Ma poi ho pensato che una bella atmosfera nebbiosa avrebbe potuto contribuire ad isolare ulteriormente la stazione di servizio dall’ambiente circostante e, magari, creare quella sorta di leggero alone luminoso attorno alle luci della stessa. Intanto che scrivo sto valutando anche di fare qualche scatto in una serata di pioggia o, e qui la vedo difficile, durante e dopo una nevicata. Al momento ho la frenesia di pubblicare l’articolo e le foto e non ho potuto assecondare questo mio desiderio ma prometto che, se ne avrò la possibilità, aggiornerò l’articolo con le foto “nebbia, pioggia e neve”.

    Ci sono poi alcuni elementi ambientali che occorre tenere assolutamente in considerazione: i proprietari della stazione di servizio, i clienti, gli autotrasportatori che stanno pernottando nell’area e che temono per il loro carico, le Forze dell’Ordine; durante la serie di scatti, nel corso delle diverse uscite, mi è capitato più di una volta di dover spiegare al proprietario del distributore cosa stavo facendo, servendomi del cellulare per mostrargli il mio blog o la pagina Instagram personale (entrambi con la mia foto) per assicurarlo che non avevo cattive intenzioni; stesso discorso con Carabinieri e Polizia, che stavano giustamente facendo il loro lavoro ma che ho brigato non poco a convincere; discorso a parte merita l’automobilista con compagna evidentemente non istituzionale a bordo che mi ha chiesto perché stavo filmando (!): lì è stata dura, soprattutto spiegargli che non mi interessava affatto registrare immagini con lui presente e che, anzi, stavo solo aspettando che se ne andasse per fotografare la stazione di servizio completamente vuota, anche perché non desideravo affatto riprodurre nelle mie immagini auto la cui targa fosse identificabile, per ovvie ragioni di privacy. 

    Una raccomandazione mi preme molto fare: se vi venisse la malsana idea di provare a scattare questo tipo di foto, usate estrema prudenza; è notte, c’è poca visibilità, vi trovate in un piazzale dove, frequentemente, le auto entrano senza troppe precauzioni oltretutto non aspettandosi che ci sia un disgraziato in piedi nella semioscurità a fotografare il distributore. Fatevi vedere, indossate i giubbotti  con bande rifrangenti che avete in dotazione nell’auto quando dovete cambiare uno pneumatico, con un occhio guardate nel mirino della fotocamera e con l’altro la strada. E un po’ di attenzione anche agli incontri che potreste fare: purtroppo la strada di notte non è il luogo più sicuro che ci sia; se avete un amico fidato (e magari anche grosso), portatelo con voi. Io mi sono portato il cane: è un maledetto bonaccione ma, essendo nero e molto peloso, offre una discreta presenza.

    Meglio un mediocre fotografo vivo che un artista morto.

    Edit: sono soddisfatto del risultato? Ni. Mi aspettavo qualcosa di diverso dalla resa della pellicola (che, fra l’altro, ha un tipo di sviluppo un po’ particolare).

    E quindi? E quindi ho trovato, con una buona dose di … fortuna, un paio di rullini Cinestill 800. Ho intenzione di rifare tutto: foto, notti all’addiaccio, incontri più o meno graditi, controlli, eccetera. Se fortuna e meteo mi aiutano, vi tengo aggiornati. Ad maiora.

     

    GAS STATION

    Gas stations as islands of light in the night.

    This is probably a forced connection, certainly irreverent, but the idea of the ‘Gas station’ mini-project leapt into my mind while observing a reproduction of the American painter Edward Hopper’s famous painting ‘The Night Walkers’, with its atmosphere of dark nocturnal stillness, in which the diner’s window appears as a spaceship suspended in the darkness and hospitable to the patrons, presumably each with their own history and peculiarities.

    Here, in a way, I consider petrol stations open after dark to be a sort of landing island for night travellers, a salvific, regenerating platform for those who, after a long or short journey, need to refuel their means of transport and themselves (assuming the coffee shop is open). In our part of the world, if we exclude motorway service stations, it is relatively recent that service stations are available at night. The habit of offering a continuous service to road users is much more deeply rooted overseas. So much so that, to tell the truth, my idea of photographing ‘gas stations’ at night is decidedly unoriginal, because there is an endless photographic literature abroad of this type of shot, especially in the United States and, I see, in some Eastern European countries. But the usual argument always applies: until a photo is taken by me, it does not exist, or rather, it does not exist taken by me.

    To practise and to make it a little easier for me to understand the problems of taking pictures, I took the first photos using my digital camera, the Nikon Z7 in combination with the Nikkor Z 14-24 f/2.8, which, having the viewer immediately reproduce the result obtained, gave me indications of the available and most effective shooting options in my opinion. But the ‘complete’ idea was to pursue this little project with the analogue camera, to take photos using film, also to recreate a sort of pictorial atmosphere vaguely (very vaguely) resembling that of Hopper’s beautiful painting.

    I thought a relatively sensitive film was needed, one that could record the night-time atmosphere without biblical shutter speeds but, at the same time, did not have too much grain, a characteristic of analogue photos that I like but without extremes. I found among the 35mm films available, an Iso 500 colour film marked Silbersalz35 500T which I don’t know where it comes from and which, I suspect, is a Kodak-based product anyway. I mounted it on the Nikon F6 and used the ‘old’ Nikkor 14-24 f/2.8 G zoom, which, even though it has been ousted from its throne by the corresponding 14-24 Z for mirrorless cameras, is still able to make its good impression and still outperforms many famous prime lenses; I didn’t shoot with the lens flat, deliberately, to exasperate the perspective distortion. Obviously compulsory use of tripod and shutter cable to avoid lethal vibrations with the necessary shutter speed, adding, as an additional caution, the preventive mirror lift.

    The problems inherent in this type of shot are many: first of all the technical ones, which I tried to solve with the shooting methodology just described. I have not written it down but I think it is easily guessed from the photos: the difference in brightness between the structures (canopy, beams, petrol station premises) and the often very bright lights that illuminate the area is considerable, and it is a matter of finding a sort of exposure compromise, it being understood that, in my intentions, there was the will to reproduce the night atmosphere as dark as possible in contrast with the island of light of the petrol station, the famous spaceship suspended in the darkness of which I was telling you; for this purpose it is essential to avoid the shot when cars are passing on the road facing the petrol station, whose headlights are a disturbing element in the image, not to mention that they can easily fool the work of the exposure meter.

    How did I reconcile the weather situation with the photos? At first I waited for clear evenings, perhaps with a breeze to ‘clean’ the air of moisture and haze, with the intention of achieving the best possible sharpness. But then I thought that a nice foggy atmosphere might help to further isolate the station from its surroundings and perhaps create that sort of light halo around its lights. As I write this I am also considering taking some shots on a rainy evening or, and here I see it as difficult, during and after a snowfall. At the moment I am in a frenzy to publish the article and the photos and I have not been able to indulge in this desire of mine but I promise that I will update the article with the ‘fog, rain and snow’ photos if I get the chance.

    There are also some environmental elements that absolutely must be taken into account: the owners of the service station, the customers, the lorry drivers who are staying overnight in the area and who fear for their cargo, the police; during the series of shots, during the course of the different outings, it happened more than once that I had to explain to the owner of the service station what I was doing, using my mobile phone to show him my blog or my personal Instagram page (both with my photo) to assure him that I had no bad intentions; the same goes for the Carabinieri and the Police, who were rightly doing their job, but whom I had a hard job convincing; a separate discourse deserves the car driver with an evidently non-institutional companion on board who asked me why I was filming (! ): there it was hard, especially explaining to him that I was not at all interested in recording images with him present and that, on the contrary, I was just waiting for him to leave so that I could photograph the completely empty service station, also because I had no wish to reproduce in my images cars whose number plates were identifiable, for obvious privacy reasons.

    One recommendation I would like to make: if you get the unhealthy idea of trying to take this kind of photo, use extreme caution; it is night, there is little visibility, you are in a forecourt where cars frequently enter without too many precautions, and also not expecting there to be a wretch standing in the semi-darkness taking photos of the petrol station. Be seen, wear the jackets with reflective bands that you have in your car when you have to change a tyre, look into the camera viewfinder with one eye and the road with the other. And a bit of attention to any encounters you might have: unfortunately, the road at night is not the safest place there is; if you have a trusty (and possibly big) friend, bring him along. I brought my dog: he’s a bloody goody-goody but, being black and very furry, offers a decent presence.

    Better a mediocre photographer alive than a dead artist.

    Edit: am I satisfied with the result? Not completely. I expected something different from the rendering of the film (which, by the way, has a somewhat peculiar type of development).

    And so? And so I found, with a good dose of … luck, a couple of Cinestill 800 rolls of film. I’m going to do it all again: photos, nights in the cold, more or less welcome encounters, checks and so on. If luck and weather help me, I’ll keep you posted. Ad maiora.

  • Treppiede Artcise AS95C

    Treppiede Artcise AS95C

    Un gigante fra i treppiedi, con qualità e ottime prestazioni. Ad un prezzo contenuto.

    Poiché avevo carenza di treppiedi (…) mi sono fatto ingolosire da un bestione che ho visto su internet, di provenienza cinese ma, almeno a giudicare dalle prime impressioni d’uso, con caratteristiche decisamente conformi a più blasonati – e costosi – tripodi.

    Sto parlando del treppiede Artcise AS95C, veramente una piacevole sorpresa sotto diversi punti di vista. Si tratta di un treppiede stabile e robusto come, per esempio, il Manfrotto 055 in alluminio (che già possiedo ma che non mi azzardo più a portare fuori di casa, con somma gioia della mia schiena) però più leggero, decisamente più alto alla massima estensione ed in grado di portare una testa di generose dimensioni.

    Le proporzioni con la fotocamera (Nikon Z50 e Nikkor 14-30)

    Brevemente, queste sono le sue caratteristiche:

    – gambe in 4 sezioni in fibra di carbonio, la maggiore è 40 mm di diametro (!), estendibili con fermi a rotazione gommati; piedini di gomma sostituibili in caso di necessità con piedini in metallo a punta presenti nella confezione;

    – le gambe sono posizionabili con diverse inclinazioni ed il treppiede può essere aperto totalmente, arrivando praticamente rasoterra, con unica altezza utile quella della testa fotografica più una decina di centimetri;

    Il treppiede con tutte le quattro sezioni aperte

    – altezza massima 208 cm (con colonna centrale a due sezioni di 40 mm estratta); non ci arrivo nemmeno se salto, ma è indubbiamente utile in determinate situazioni poter disporre di una “giraffa” simile;

    – utilizzabile con una base di livellamento da 75 mm facile da installare e di una notevole comodità o, in alternativa, con una crociera standard in alluminio, forata per alleggerire il peso, con un gancio sottostante a cui è possibile appendere lo zaino o un peso qualsiasi per una maggiore stabilizzazione del treppiede e con fori dedicati a viti passanti che bloccano la testa;

    – c’è in dotazione anche una colonna centrale, sempre in carbonio, suddivisa in due sezioni estendibili e la cui unica pecca (ma è un particolare di poco conto) è la mancanza di un gancio simile a quello della crociera in alluminio a cui poter appendere borse e accessori; ho risolto facilmente acquistando a parte un gancio da avvitare, con pochissima spesa;

    – il treppiede viene consegnato con diversi accessori, alcuni dei quali veramente utili, come la rete di carico da appendere fra le tre gambe e comodissima per mettere oggetti d’uso o semplicemente un peso per stabilizzare ulteriormente il treppiede stesso; c’è una sacca in cordura che contiene il treppiede ripiegato con montata la testa fotografica; ci sono altri accessori come i sopracitati piedini in metallo appuntiti, brugole di regolazione, viti di bloccaggio e anche un braccetto da avvitare a cui collegare accessori vari fra cui un porta-cellulare (anch’esso fornito nella confezione) per fotografi con il risvoltino (scusate, questa mi è scappata, sono una bestia, lo so);

    – il costruttore dichiara una portata massima di 40 kg e, sinceramente, faccio fatica a non credergli: il treppiede sembra veramente una roccia.

    La sezione maggiore delle gambe del treppiede

    Solo per informazione: toccate con mano caratteristiche più che interessanti e la qualità costruttiva, mi sono fatto ingolosire ed ho acquistato anche la testa a sfera della stessa casa produttrice cinese, la Artcise XB54 da 54 mm, decisamente proporzionata per essere montata sulla generosa crociera. Anche qui le prime impressioni sono positive ma, sempre tenendo a mente il motto della nonna “Scopa nuova pulisce sempre bene”, aspetto di usarla intensamente prima di promuoverla.

    Il dispositivo di sblocco delle sezioni

    Insomma, in sintesi, sembra decisamente un gran bel treppiede (anche dal punto di vista estetico), con caratteristiche da pro ma con costi decisamente inferiori (stiamo parlando di quasi 1/5 del costo della marca più famosa fra i fotografi). Ovviamente occorre aspettare il verdetto del giudice supremo, la prova sul campo: solo l’utilizzo nel corso del tempo e alle condizioni usuali per il suo impiego, fango o polvere, umidità, freddo gelido, qualche botta involontaria, potrà stabilire se le ottime promesse verranno mantenute.

     

     

     

     

     

     

    Il gancio della colonna centrale acquistato a parte.

    Il generoso portaoggetti in rete

    Il dispositivo di variazione di inclinazione delle gambe

    La testa Artcise XB54

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    ARTCISE AS95C TRIPOD

    A giant among tripods, with quality and excellent performance. At an affordable price.

    Since I had a shortage of tripods (…) I was intrigued by a behemoth I saw on the Internet, of Chinese origin but, at least judging by the first impressions of use, with characteristics decidedly in line with more emblazoned – and expensive – tripods.

    I am talking about the Artcise AS95C tripod, truly a pleasant surprise in several respects. It is a stable and sturdy tripod like, for example, the Manfrotto 055 in aluminium (which I already own but which I no longer dare to take out of the house, to the joy of my back) but lighter, decidedly higher at maximum extension and able to carry a generously sized head.

    Briefly, these are its features:

    – legs in 4 carbon fibre sections, the largest being 40 mm in diameter (!), extendable with rubberized rotation stops; rubber feet that can be replaced if necessary with pointed metal feet included in the package;

    – the legs can be positioned at different angles and the tripod can be opened fully, reaching practically to the ground, with the only useful height being that of the camera head plus about ten centimetres;

    – maximum height 208 cm (with two-section 40 mm centre column extracted); I can’t even reach it if I jump, but it is undoubtedly useful in certain situations to have a similar ‘giraffe’;

    – it can be used with a 75 mm levelling base that is easy to install and of considerable convenience or, alternatively, with a standard aluminium cruiser, drilled to lighten the weight, with a hook underneath on which you can hang your rucksack or any weight for greater stabilisation of the tripod, and with dedicated holes for through-bolting screws that secure the head;

    – there is also a central column, also made of carbon, divided into two extendable sections and whose only flaw (but it is a minor detail) is the lack of a hook similar to the one on the aluminium crossbar from which to hang bags and accessories; I easily solved this by purchasing a hook to screw in separately, at very little expense;

    – the tripod is delivered with several accessories, some of which are really useful, such as the loading net to hang between the three legs and very convenient for placing objects or simply a weight to further stabilise the tripod itself; there is a cordura bag that holds the folded tripod with the camera head mounted; there are other accessories such as the aforementioned pointed metal feet, adjusting screws, locking screws and even a screw-on arm to which various accessories can be attached, including a mobile phone holder (also included in the package) for photographers with lapels (sorry, that one slipped out, I’m a beast, I know);

    – the manufacturer claims a maximum load capacity of 40 kg and, frankly, I find it hard not to believe him: the tripod really does look like a rock.

    Just for information: having seen the more than interesting features and the build quality, I was intrigued and also bought the ball head from the same Chinese manufacturer, the 54 mm Artcise XB54, which is very well-proportioned to be mounted on the generous cruiser. Here too, first impressions are positive but, always keeping in mind grandma’s motto ‘new broom always cleans well’, I wait to use it intensively before promoting it.

    In summary, it definitely looks like a great tripod (also from an aesthetic point of view), with pro features but at a much lower cost (we are talking about almost 1/5 of the cost of the most famous brand among photographers). Obviously we must wait for the verdict of the supreme judge, the field test: only use over time and under the usual conditions for its use, mud or dust, humidity, freezing cold, a few unintentional bumps, will be able to establish whether the excellent promises will be kept.

  • Le strade di Viadana (e dintorni)

    Le strade di Viadana (e dintorni)

    Un giro virtuale per le strade del viadanese, immortalato su pellicola, per godersi ogni attimo con calma.

    Quando sembra che non ci sia più tempo, la tentazione è quella di mettersi a correre, fare presto, fare il più cose possibile.

    Ed invece no. Bisogna fermarsi. Assaporare le cose che conosci e che ami, come la tua Bassa, le campagne che vedi da tanto tempo, le strade che hai percorso tante volte.

    Metti da parte le macchine digitali, quelle perfette che difficilmente sbagliano un colpo, che ti fanno vedere la foto prima ancora di averla immaginata. E tiri fuori le vecchie glorie che come sensore hanno un rullino e che per trentasei volte sarà quello e solo quello, senza ripensamenti. E scatti piano, prendendoti il tempo. Anche quello che forse non c’è.

    E non sai quanto tempo ci sarà ancora. Ma hai la confortante speranza che i tuoi passi ed il clic della tua macchina fotografica risuoneranno ancora un po’ quando sarà tornato il silenzio in queste strade amiche.

     

    Via Argine Oglio

     

    Via Volta

     

    Via Valle

     

    Via Ottoponti

     

    Via Manfrassina

     

    Via Valle

     

    Via Podiola

     

    Via Al Ponte

     

    Via Bordenotte

     

    Via Kennedy

     

    Via Val D’Enza

     

    Via Pisacane

     

    Via Cadorna

     

    Via Val D’Enza

     

    Via Case Sparse Casalbellotto

     

    Via Podiola

     

    Via Al Ponte

     

  • Il pane delle api.

    Il pane delle api.

    In una calda giornata di maggio passi in auto su uno dei nostri argini e ti guardi in giro distrattamente, perché sai cosa offre il paesaggio agricolo in questo periodo: il verde azzurrognolo dei campi di grano non ancora maturo, il giallo vivo dei campi di colza, il verde smeraldo delle coltivazioni di erba medica. Poi vedi qualcosa che “stona”, qualcosa che non ci può essere qui nella Bassa: una macchia viola punteggiata di rosso. E ti dici che la Provenza è lontana, non possono esserci campi di lavanda qui da noi, se non in rarissime eccezioni. Non puoi fermarti, non c’è tempo. Ma alla sera ritorni, trovi il campo viola che non può esserci ed hai la fortuna di parlare con un signore gentile, venuto anch’egli per fare foto, che ti spiega che queste meraviglie viola sono i fiori della Facellia (con al preziosa comparsa di fiordalisi e papaveri), coltivati per uno scopo ben preciso, grazie anche alla sponsorizzazione di una nota industria alimentare parmigiana: sono il pane delle api.

    La Facelia è una pianta erbacea annuale che nei mesi caldi colora di un bel viola acceso campi e prati,  regalando effetti cromatici davvero suggestivi. La sua fioritura abbondante e persistente piace molto alle api e a tanti altri insetti impollinatori ghiotti del suo nettare. Da questa pianta, infatti, si ricava un miele molto apprezzato e di altissima qualità. Una volta sfiorita, la Facelia si trasforma in un prezioso nutrimento per il terreno, tanto da essere considerata un vero e proprio concime naturale.

    Si tratta di una delle piante da miele più ricercate e coltivate che ha un ruolo molto importante per la conservazione della biodiversità.

    I suoi fiori, di colore blu-violetto, attirano api, bombi e tanti altri insetti utili. Le larve di questi insetti predano alcuni parassiti delle piante mentre gli esemplari adulti si nutrono del nettare e del polline. I frutti hanno una spiccata capacità germinativa e non appena cadono in terra generano nuove piante.

    Il valore agronomico e ambientale della Facelia è ormai riconosciuto anche in Italia da un numero sempre crescente di agricoltori e apicoltori, che la utilizzano sia come rimedio salva-api, sia come concime naturale una volta che queste terminano il loro ciclo di fioritura. Questa pianta, infatti, ha come caratteristica peculiare, la caratteristica di fiorire in periodi dell’anno in cui le altre piante sono già sfiorite, costituendo un vero e proprio salvavita per le api in particolare. Inoltre la pianta rappresenta anche un’ottima fonte di nutrimento per animali da pascolo, come bovini ed equini.

  • il grande rifiuto – Cinque anni dopo

    il grande rifiuto – Cinque anni dopo

    “Solo gli stolti non cambiano idea” ma è passato un lustro e questo lasso di tempo, in campo fotografico digitale, equivale ad una eternità.

    Nell’agosto del 2016, di ritorno da un periodo di vacanza in montagna in cui avevo portato con me solo una mirrorless Olympus micro 4:3 e non la “solita” attrezzatura reflex, scrivevo su queste pagine:

    “In futuro cambierò l’attuale attrezzatura DSLR? Non credo proprio (volevo scrivere “manco morto” ma era decisamente fuori luogo), almeno nell’immediato. Piuttosto mi accomoderò sulla riva del fiume ed aspetterò sviluppi da mamma Nikon, un po’ per partito preso ed un po’ perché, malgrado il sistema micro 4:3 sia molto evoluto, la disponibilità e la varietà (mi sparate se dico anche la qualità?) di obiettivi del sistema 35mm è tutt’ora ineguagliata. Inoltre: non ho le mani come badili, ma mi trovo a disagio con una fotocamera ammirevolmente dotata di numerosi controlli fisici sul corpo ma che faccio fatica a settare “alla cieca”; se dovesse uscire una mirrorless con il corpo macchina di una full frame, beh, sarò il primo ad interessarmene.”

    Ecco, rileggendo questo passo a distanza di cinque anni, debbo dire che ero stato parecchio categorico ma, ugualmente, avevo lasciato aperto uno spiraglio, indicando a grandissime linee quali erano i miei desiderata al riguardo.

    Nikon Z7 – Nikkor Z 14-30 f/4 S – 1,5″ f/11 ISO 64

    Con il senno di poi, direi che sono stato ampiamente accontentato: sono state messe in commercio da “mamma Nikon” fotocamere mirrorless full frame, la Nikon Z7 e la Z6, con caratteristiche per me decisamente interessanti (alcune sorprendenti) e soddisfacenti, non ultimo il corpo macchina di dimensioni adeguate e con tutti i controlli analogici a portata di mano come sulle DSRL utilizzate fino a poco prima (D850 e D500). E non solo: anche il segmento del formato ridotto (il cosiddetto DX, per Nikon) è stato movimentato con alcune fotocamere (Z50 e Zfc) probabilmente immature e “servite” in modo inadeguato dal parco obiettivi DX ma, comunque, testimonianza che si sta lavorando per poter offrire al fotografo che ha deciso di scegliere Nikon soluzioni promettenti in prospettiva.

    Ma quali sono, alla fine, le caratteristiche nel nuovo segmento di fotocamere digitali che mi hanno convinto a fare il salto?

    Dei corpi macchina di adeguate dimensioni ho già detto, anche se questo aspetto è applicabile essenzialmente alle due full frame, ovvero la Z6 e la Z7 versione I e II, mentre invece le DX un po’ piccolotte lo sono, anche se dopo aver provato la Z50 posso dire che mi aspettavo di peggio; sono curioso di mettere le mani su una Z9, che ha tutte le probabilità di diventare una game changer.

    Altra peculiarità che mi ha convinto è stata, e questo è quasi banale, l’assenza dello specchio. Fotografando paesaggi, soprattutto in carenza di luce (cioè pressoché sempre, perché alba e tramonto non sono note per la loro luminosità) era obbligatorio confidare nella sacra trinità treppiede/specchio alzato/scatto remoto proprio per mitigare le vibrazioni indotte dall’alzarsi ed abbassarsi dello specchio della reflex, che potevano generare micromosso. Ora lo specchio non c’è più, lo scatto remoto ed il treppiede si usano solo quando si vogliono ottenere fotografie da lunga esposizione e a questo occorre anche aggiungere che le Nikon Z hanno la stabilizzazione sul sensore e non più sugli obiettivi, garantendo una “sicurezza” di scatto precedentemente inimmaginabile.

    Nikon Z50 – Nikkor 500 PF f/5.6 – 1/160″ f/5.6 ISO 800

    Non parliamo, poi, della foto naturalistica. Anzi, parliamone. A me piace moltissimo ritrarre gli uccelli, in particolare i passeracei; prima, quando un amico pennuto decideva di posarsi sul ramo davanti a me, accuratamente scelto o preparato in precedenza, avevo il tempo materiale per tre foto a raffica, perché poi il rumore dello specchio e dell’otturatore facevano volar via il soggetto; ora, come detto, senza specchio e con lo scatto elettronico, sono libero di scattare quanto voglio o, almeno, fino a che è il soggetto che decide di andarsene. Ed anche in questo caso, non essendoci il movimento su-giù dello specchio e la stabilizzazione efficacissima, posso permettermi tempi di scatto non elevatissimi, pur utilizzando l’adorato Nikkor 500mm PF che non è propriamente un pancake.

    Altro aspetto peculiare delle mirrorless è il mirino, non più ottico ma elettronico, praticamente un piccolo monitor a cui appoggiare l’occhio e da cui non toglierlo più per visualizzare l’LCD; il mirino elettronico ha la capacità di mostrare esattamente ciò che il sensore sta registrando, fornendo informazioni istantanee al fotografo per quanto concerne         esposizione, contrasto e, ovviamente, composizione, senza contare altre informazioni utilissime come dati di scatto, livella elettronica e così via. Caratteristiche, queste, utilissime in paesaggistica ma, a maggior ragione, in naturalistica, dove qualsiasi movimento del corpo, compreso lo spostare l’occhio dal mirino all’LCD per controllare la foto scattata può mettere in allarme la “preda” della caccia fotografica. Rimangono da migliorare alcuni aspetti, su tutti il mirino oscurato durante una raffica di scatti.

    Vogliamo poi parlare della taratura delle lenti? Una pratica costante, soprattutto nei teleobiettivi medi e lunghi, era verificare ed eventualmente calibrare il più esattamente possibile l’autofocus per evitare problemi di front o back focus. Non è più necessario, ora la messa a fuoco avviene direttamente sul sensore. E, a proposito di lenti: quelle native per il sistema Z della Nikon surclassano sotto molti aspetti le loro corrispondenti del sistema F e, da sole, sarebbero già un valido motivo per passare al sistema mirrorless Nikon senza pensarci un attimo (esperienza personale: il trittico di zoom 14-24, 24-70 e 70-200 f/2.8 è migliore dello stesso trittico con attacco F e, da ciò che leggo in giro, anche di parecchi fissi delle case concorrenti). D’accordo, manca qualche obiettivo – soprattutto i lunghi teleobiettivi – per essere a pieno regime, ma anche in questo caso i lavori procedono celermente ed il calendario di uscita delle nuove lenti si arricchisce di giorno in giorno. Senza dimenticare che, grazie all’adattatore Nikon FTZ (ora giunto alla seconda versione più “magra”) è ancora possibile montare sulle mirrorless Nikon tutte le lenti Nikkor prodotte fino a alcuni decenni prima, sacrificando solo nel caso delle lenti più datate alcuni automatismi.

    Allora va tutto bene? Non proprio, ci sono ancora alcuni aspetti in cui le fotocamere Nikon mirrorless devono recuperare terreno rispetto alle ammiraglie reflex e ad altri prodotti top delle case concorrenti: mi riferisco in particolare all’AF continuo da utilizzare nella fotografia di azione (sport, naturalistica); ed anche il riconoscimento viso/occhi che è stato implementato con grandi risultati nel ritratto di persone è abbastanza acerbo per quanto riguarda la fotografia di animali.

    Detto tutto ciò, non mi resta che recitare il mea culpa per le posizioni un filo intransigenti assunte qualche anno fa e guadare con ottimismo al futuro. Come detto sopra, proprio in questi giorni viene commercializzata la prima ammiraglia mirrorless Nikon, la Z9, che ha tutte le carte in regola per diventare un termine di paragone assoluto per il futuro prossimo e per chiunque produca fotocamere.

    Nikon Z6 – Nikkor Z 70-200 f/2.8 – 1/125″ f/3.2 ISO 3200

  • Lana Merino, una trama coinvolgente.

    Lana Merino, una trama coinvolgente.

    A volte ritornano. Anzi, ultimamente, accade sempre più spesso. Mi riferisco a materiali per l’abbigliamento caduti in disuso, soppiantati dalle più economiche e performanti (dicono) fibre sintetiche.

    A volte ritornano, dicevo. È il caso della lana per l’abbigliamento da escursione.

    Fino ad alcuni decenni fa la lana è stato il materiale di base per l’abbigliamento outdoor, se non altro per quanto riguarda lo strato di abbigliamento intermedio e quello esterno impermeabile. Ed il motivo è presto detto: di tutti i materiali a disposizione prima della comparsa delle fibre sintetiche, la lana si è sempre distinta per la sua capacità di termoregolazione. In pratica la struttura delle fibre della lana è tale da permettere agli indumenti tessuti con questo materiale di formare delle microcamere che trattengono l’aria a contatto con il corpo, creando di fatto una barriera isolante rispetto all’ambiente esterno, sia quando è più freddo che quando è più caldo.

    Ecco perché sono sempre stati funzionali i vecchi maglioni di lana alle nostre latitudini per difenderci dal freddo ma, allo stesso tempo, anche popoli che vivono nei territori desertici, come i Tuareg, hanno utilizzato gli indumenti in lana per proteggersi dal caldo.

    Non bisogna poi scordare che la lana ha anche la caratteristica di avere una elevato potere assorbente dell’umidità, evitando l’insorgere del terribilmente fastidioso “effetto bagnato” degli indumenti in cotone o di altre fibre naturali, grazie alla struttura delle sue fibre, che sono in grado di incorporare al proprio interno una quantità d’acqua pari ad 1/3 del proprio peso specifico, mantenendo la superficie asciutta e quindi salvaguardano la capacità di termoregolazione dell’indumento (si dice che la lana è igroscopica).

    Perché la lana è caduta in disuso per l’abbigliamento tecnico, allora? Indubbiamente un fattore può essere stato la leggerezza. I nuovi capi tecnici in nylon o in pile sono più leggeri e meno ingombranti, a parità di capacità isolante; senza contare che non trattenendo l’acqua, sotto la pioggia non si appesantiscono e asciugano molto più rapidamente. Altro fattore determinante può essere stato quello relativo ai costi produttivi, che hanno reso più conveniente l’acquisto di capi sintetici anche, se, a dire il vero, quando ci si avvicina a determinati prodotti altamente performanti, il conto in banca ha un sussulto.

    Sembrava definitivamente tramontata l’era della lana nel trekking ma negli ultimi anni abbiamo assistito ad una inversione di tendenza: bandita dai primi due strati di protezione, la lana è tornata a far valere le proprie ragioni proprio dove non ce lo saremmo mai aspettato: lo strato intimo (maglie, calzettoni e calzamaglie). Premetto che io sono sempre stato un odiatore seriale delle maglie o delle calze di lana a diretto contatto con l’epidermide e, pur non avendo problemi specifici di ipersensibilità, non ho mai sopportato il suo contatto ruvido con la pelle. Ma è stata la scoperta dei capi tecnici prodotti in lana Merino a farmi cambiare idea. La lana Merino è un tipo di lana dalle fibre così fini da cedere a contatto con la pelle senza generare alcuna sensazione di fastidio. Risolto il problema principale, il resto è stato tutto in discesa: l’elevata capacità igroscopica permette alla pelle di rimanere asciutta a contatto con il tessuto perché il sudore viene trasferito agli strati esterni dell’abbigliamento; inoltre, fatto assolutamente non trascurabile, la lana è naturalmente antibatterica, al contrario delle fibre sintetiche che sono vere e proprie incubatrici di batteri, e evita per molto tempo l’insorgere di cattivi odori; infine l’elevata elasticità delle fibre di lana assicura una elevata vestibilità degli indumenti intimi. Rimane il lato economico: un buon indumento in lana Merino ha un costo non trascurabile e, proprio per questo motivo, mi sono guardato un po’ in giro per trovare un prodotto che avesse le caratteristiche che ho elencato sopra ma avesse, nel contempo, un prezzo abbordabile.

    Ho scoperto, quasi per caso, un rivenditore austriaco, Alpin Loacker ( sito web di Alpin Loacker ) che ha in catalogo alcuni indumenti essenziali (magliette a maniche corte e lunghe, calze, fasce per il collo e cuffie, sia per uomo che per donna) veramente validi, che rispettano tutte le aspettative di chi li indossa e, anzi, riescono ancora a sorprendere per la loro morbidezza e vestibilità. Le maglie hanno una diversa grammatura della fibra a seconda che si tratti di un indumento estivo o invernale e, seppur non avendo un gamma vastissima di colori, sono comunque molto piacevoli anche esteticamente. Le calze le ho testate negli scarponi durante una lunga escursione in montagna ed al ritorno i piedi erano asciutti e senza “effetti speciali” indesiderati. Lo scaldacollo e la cuffia semplicemente li adoro.

    Sono sincero: da quando ho provato la prima maglietta, acquistata in esemplare unico per togliermi lo sfizio di provare se era vero quanto si diceva, non l’ho più abbandonata e, anzi, ho provveduto ad acquistarne altre, unitamente agli altri prodotti di cui parlavo prima. Oltre a ciò devo confessare che non uso questi indumenti unicamente come abbigliamento tecnico ma anche nella vita di tutti giorni, come indumenti “normali”. Ed anche l’esame “estate padana” (caldissima ed umida) è stato superato a pieni voti: è incredibile come questi indumenti possano regalare una sensazione di freschezza anche a luglio nella Bassa, assorbano il sudore e riescano ugualmente a non emanare cattivi odori, al contrario delle magliette sintetiche o quelle in cotone, anche se commercialmente blasonate.

  • Gente del Delta

    Gente del Delta

    Breve viaggio con fotocamera e cuore nelle terre dove il Po va a concludere la sua lunga corsa.

    Càpita che prendi armi e bagagli e ti fai in auto più di 200 chilometri per andare per foto. E ti lasci alle spalle pianura, zanzare, argini, canali di bonifica ed il fiume Po e verso sera arrivi in un luogo i cui ci sono pianura, zanzare, argini, canali di bonifica e Po. A parte le scontate domande esistenziali (“Ma sei scemo?”), ti rendi immediatamente conto che non è affatto vero, almeno non totalmente; sì, ci sono tutti gli elementi riportati ma c’è ben altro: già lungo la strada, oltre ai pioppi sono sempre più numerosi i pini marittimi, poi fai due passi oltre il limite dell’acqua dolce (confine estremamente labile, in questi luoghi, da secoli) e vedi un porto, vedi le barche dei pescatori, il mare o comunque una buona anteprima di esso. E’ il Delta del Po, con tutte le implicazioni che questa definizione porta, con le mille sfaccettature che questi luoghi possono assumere nel breve volgere di pochi chilometri.

    Arrivi alla sera, come detto, ti togli polvere e fatica di dosso con una buona doccia e poi esci, per mangiare qualcosa prima di andare a dormire il più presto possibile, che domani ci si alza molto presto. Ti siedi ad un tavolo all’aperto nel bar/pizzeria/ritrovo del paese e, mentre aspetti la portata, dai un’occhiata interessata ma non invasiva attorno, suppongo ricambiata. E vedi volti di tutte le età e sesso, volti di persone segnate dal sole, dal vento e dal freddo, persone che avrebbero tutte le ragioni per essere arrabbiate con la vita, chiuse, diffidenti – e forse un pochino lo sono – ed invece le senti parlare gioiose, uno con tutti e tutti con l’altro, scambiarsi battute, notizie, anche un semplice saluto solo per far sapere che ci sei ancora. Avverti una sorta di solidarietà, di sentire comune, di senso di appartenenza che altrove è andato purtroppo perduto. Sono le persone che poco tempo fa hanno eretto barricate alle porte del paese per ostacolare l’arrivo di immigrati imposti dall’alto, dal Governo o dalle cooperative; ma sono le stesse persone che molto tempo prima non hanno esitato ad accogliere i profughi provenienti dalla Serbia durante la guerra dei Balcani. L’empatia è conseguente, forse hanno capito che anch’io sono “uno del Po”.

    Il giorno successivo, molto presto, esci in barca con i compagni di workshop e la bravissima Erika Poltronieri, fotografa ed ora anche amica, che ti spiega le cose con una passione che ti fa comprendere che questo, per lei, non è solo lavoro; vai per vedere da vicino le reti, i pali di sostegno delle stesse, le vie d’acqua navigabili ma a me imperscrutabili, i pescatori nel loro elemento naturale, gabbiani, cormorani e sterne che attendono il loro turno per banchettare. Apprendi che da qui viene praticamente la maggior parte della produzione di vongole italiane, per non parlare delle anguille, dei granchi e di numerose altre meraviglie che questo ambiente nutre e custodisce. E capisci che le impressioni della sera prima sono vicine alla realtà: è gente dura, temprata dalla vita, ma che con un sorriso ed una richiesta cortese si apre e si rivela, ti accoglie, ti racconta.

    Il resto della giornata è una continua scoperta di meraviglie, in fin dei conti Etruschi, Romani, Longobardi ed Estensi non sono passati di qui per caso. Che sia un’opera di bonifica, che sia un ponte sui coloratissimi canali che intersecano Comacchio, capitale morale della zona, che si tratti di uno splendido loggiato di 140 arcate o dei casoni di pesca sui rami del Po che corrono verso il mare, tutto è bellissimo e degno di interesse. L’unica cosa che stona un pochino è il meteo, ma su quello, da quando ho ripreso a fotografare, ormai non faccio più affidamento: a parte la piacevolissima brezza marina del mattino in barca, caldo, afa e uno straccio di nuvoletta nemmeno una a pagarla.

    A proposito di foto, visto che comunque ero venuto per questo: mi sono portato di tutto e di più e, se avessi potuto, avrei portato altro. E la mia schiena, a distanza di una settimana, ancora mi augura accidenti. Comunque, dicevo, ho portato con me un corpo macchina, anche se due sarebbero stati l’ideale: uno per usare un teleobiettivo zoom 70-200 mm magari integrato con il teleconverter (ritratti, avifauna, particolari delle attività di pesca) ed uno per i paesaggi, le foto urbane e gli scatti alle costruzioni di pesca, da abbinare ad un 24-70 mm; in alcune situazioni poteva essere utile anche un grandangolo un poco più spinto: ho portato il 16-35 mm ma non l’ho usato perché mi ero stufato di fare cambi d’ottica, quando voglio sono pelandrone. Assolutamente necessari i filtri GND per compensare le differenze di luminosità fra cielo, terra e mare (questa l’ho già sentita…) ed i filtri ND per l’effetto acqua setosa nelle situazioni (ovunque) dove questo elemento è presente.

    Ho fatto diversi scatti, un paio credo siano decenti. Qui pubblico solo quelli in bianco e nero perché oggi gira così; ma altrove, nella galleria del sito o sui social tipo Instagram e Facebook ho pubblicato anche foto a colori, perché questi splendidi luoghi si prestano a tutto. Mi rimane solo la curiosità di ritornarci quando ci sarà un elemento comune a Bassa e Delta e che all’inizio non ho potuto nominare per via della stagione: la nebbia.

     

     

     

  • La fotografia ai tempi del colera

    La fotografia ai tempi del colera

     

    Come è andata, con la fotografia, al tempo del Covid-19? 

    Spoiler: male, malissimo.

    D’accordo, ho rubacchiato il titolo pensando al romanzo di Màrquez, ma credo ci possa stare. Cosa è successo in questi mesi, problematici come non mai da qualsiasi punto di vista, alla mia fotografia? Come ho sopperito alla impossibilità di uscire per scattare foto a causa della quarantena forzata imposta dall’emergenza Covid-19?

    Male, decisamente male.

    E’ vero che gli stimoli visivi in un ambiente che si conosce a memoria non possono essere allettanti, ma se si desidera far lavorare l’otturatore, qualcosa si trova sempre, in qualsiasi condizione e luogo, propria abitazione compresa. Ed invece no, è stato un disastro, per una serie di concause materiali e morali diverse.

    Mi sono dedicato alla fotografia naturalistica – un pochino addomesticata, a dire il vero – ritraendo gli amici pennuti che frequentano il giardino ma non è stata una grande esperienza per svariati motivi: la mancanza di soggetti prima di tutto perché, escluse le meravigliose cinciallegre che hanno pensato bene di mettere su famiglia nella siepe e di cui ho avuto il privilegio di fotografare i nuovi arrivati, tutti gli altri sono “emigrati” verso campagna e boschi, come è giusto che sia in questo periodo; senza contare che l’abbondanza di vegetazione sugli abituali rami di posa mi precludeva di fatto lo scatto in parecchie occasioni.

    Ho cercato di virare verso la macro ma, siccome io con la roba con meno di due o con più di quattro gambe non ci vado molto d’accordo – questione di pelle – ho desistito subito, rinunciando a priori anche a gocce che cadono nelle bacinelle, città costruite con minuteria di ferramenta e sfondo improbabile, eccetera.

    Ho cercato di abbracciare la fotografia di strada – street photography, per quelli bravi semplicemente “street”, mi provoca l’orticaria solo a pronunciarlo – ma poiché le persone non potevano liberamente circolare a causa dei divieti, dal balcone di casa potevo solo fotografare la signora di importazione che fa regolarmente pisciare il suo cagnolino sul mio muretto di cinta.

    Non parliamo poi di foto architettonica: casa mia (e tutto il quartiere in cui abito) è stata costruita da una onesta e capacissima impresa artigiana locale che, però, con Le Corbusier non ha mai avuto punti di contatto.

    Sono arrivato, per disperazione, agli autoritratti ma, anche in questo caso, il soggetto è uno, indivisibile, inappetibile e ottenuti un paio di scatti buoni per aggiornare la biografia del sito internet o dei socials, la novità si è subitamente esaurita. Qui ho toccato il fondo, tengo a precisarlo.

    Qualche soddisfazione l’ho avuta, fortunatamente, dalle foto di fiori, visto che il periodo di chiusura totale (quando sento dire “lockdown” mi sale l’istinto omicida) è trascorso in concomitanza allo sbocciare della Primavera e, un po’ in giardino da me e un po’ in trasferta nei giardini dei vicini vestito a mo’ di chirurgo coronarico, qualcosa ho tirato fuori.

    Una cosa, però, l’ho realizzata chiaramente e tristemente: anche in chi, come me, non è artista ma semplice mestierante, la mancanza della libertà di scegliere dove-come-quando scattare, la condizione psicologica altalenante generata dai timori per il contagio, per il futuro prossimo, dalla percezione di dilettantismo (spero non cinico calcolo) da parte di chi avrebbe dovuto guidarci fuori dall’emergenza, da tutta una serie di fattori inesplorati e quasi mai piacevoli hanno provocato una aridità creativa mai provata, rendendo di fatto difficile scattare qualsiasi tipo di fotografia, anche la più scontata e tecnicamente semplice. Ed il riscontro di ciò l’ho avuto il primo giorno di uscita dopo la riapertura delle stalle: ho fatto un giretto in campagna (più di 150 metri da casa e addirittura fuori dal Comune di residenza!!!), ho scattato un paio di foto in leggerezza, senza pretese e senza pianificazione, così, per dare aria all’otturatore ma la foto ottenuta mi è piaciuta, mi ha dato la sensazione di essere mia, di appartenermi.

    Tutta un’altra vita, sotto ogni aspetto.

  • Il film sulla Nikon F6 ed il Nikkor 500mm f/5.6 E PF ED VR

    Il film sulla Nikon F6 ed il Nikkor 500mm f/5.6 E PF ED VR

     

    Mi sono tolto lo sfizio di provare a fotografare l’avifauna con una macchina analogica, la Nikon F6, un obiettivo recentissimo, il Nikkor 500mm f/5.6 PF e la pellicola

    Abbinamento atemporale fra Nikon F6 e Nikkor 500mm f/5.6 E PF ED VR

    Era da un po’ di tempo che mi frullava in mente di (provare a) fotografare gli ospiti pennuti del mio giardino – cince, verdoni, pettirossi – con una fotocamera analogica, utilizzando una pellicola 35mm. Questo mini-progetto, meglio classificabile fra la voce “voglie”, aveva due problematiche di base, nel suo sviluppo: la disponibilità di una pellicola ad alti ISO che consentisse tempi di scatto consoni ai soggetti ed un obiettivo sufficientemente lungo per poter scattare alla distanza di sicurezza, ove per ‘distanza di sicurezza’ si intende quella stabilita dagli uccellini e non da me, ovviamente.

    La compatibilità fra fotocamera ed obiettivo

    Per quanto riguarda la pellicola non avevo molte opzioni: quella più veloce a colori disponibile nel frigorifero (perché, voi cosa lo usate a fare il frigorifero?) era la Kodak Portra 160, non avevo altro, nemmeno una misera 400. Naturalmente provvederò a procurarmi, appena possibile, una 400 o una 800 ISO ma, per il momento, questa avevo e questa ho montato sulla F6. Secondo problema: la massima lunghezza focale di cui dispongo come obiettivo pienamente compatibile con la F6 sarebbero i 200mm dello zoom  Nikkor 70-200mm f/2.8 G ED VR che, volendo, andrebbero anche bene ma solo se si fotografano animaletti a partire dal cane San Bernardo in su; per l’avifauna, invece, soprattutto per quella di minuscole dimensioni come i passeracei, serve qualcosina in più, per avere il quadro della foto riempito con qualcosa di meglio di un puntino di piume attorniato da una infinità di rami. Insomma, per cercare di isolare decentemente i soggetti e per renderli sufficientemente visibili, mi sarebbe servito un obiettivo più lungo, anche in considerazione del fatto che la Nikon F6 è un pieno formato, senza il fattore di moltiplicazione di un formato APS-C (la sigla DX nel caso di Nikon) e l’unico di cui dispongo è il 500mm PF, che uso abitualmente con la Nikon D500. A questo punto la domanda era: come si sarebbero sposati una fotocamera analogica del 2004 con un obiettivo ultra moderno prodotto dal 2018? Dal punto di vista dell’attacco, nessun problema: la baionetta di tipo F-mount della Nikon ha il pregio indiscutibile di essere la stessa dagli anni ’60 (del secolo scorso… mamma mia!); il dubbio era semmai sui numerosi contatti elettronici presenti sull’attacco del 500mm ma assenti sulla F6; ed infatti, un po’ leggendo notizie in rete e un po’ rompendo le scatole ad amici e conoscenti con la mia passione, ho capito che avrei potuto usare l’obiettivo esclusivamente alla massima apertura, a f/5.6 . Poco male, ad essere sinceri, tanto anche sulle digitali che uso normalmente con questo obiettivo, l’apertura è sempre a f/5.6, un po’ per ragioni di rapidità di scatto in condizioni di poca luce e un po’ perché questo passa il convento e già un obiettivo f/4 mi costringerebbe a vendere qualche parte anatomica a cui sono affezionato e quindi questo mi tengo.

    Preparazione del set

    Come detto, gli scatti di prova li avrei fatti nel mio giardino dove, a partire da novembre e fino a marzo di ogni anno metto delle mangiatoie con semi di vario tipo a disposizione degli uccellini, che hanno così la possibilità di svernare senza troppi problemi durante i difficili mesi freddi. Per opportunità le mangiatoie sono piazzate su un albero e vicino a delle siepi che fungono quindi anche da posatoi per scatti fotografici, seppure non di elevata “appetibilità” estetica. Normalmente faccio le foto rimanendo in casa, affacciato ad una finestra non vi dico di che stanza, ma posso permettermi di fare questo perché il fattore di moltiplicazione della D500 mi consente di rimanere ad una certa distanza. La F6, invece, avrebbe richiesto un maggiore avvicinamento ai soggetti e quindi ho tirato fuori la tenda mimetica e l’ho piazzata all’aperto, per essere più vicino. Mi sono abbigliato per una trasferta in Antartide, perché stare quasi completamente immobili all’aperto per un certo numero di ore non è semplicissimo in questo periodo, ho piazzato il treppiede nella tenda e mi sono messo all’opera.

    Tecnica di scatto con la F6

    Ho ricercato la massima semplicità operativa possibile per questi scatti, anche a causa dei suddetti limiti tecnici: dato che un rullino ha 36 pose, ho settato la fotocamera per lo scatto singolo, niente raffica come accade sulle digitali, pur essendo essa disponibile sulla Nikon F6; il dispositivo di riduzione vibrazioni presente sull’obiettivo non ho nemmeno provato ad inserirlo, nel timore di provocare esplosioni; ho, come detto, messo la macchina sul treppiede con testa gimbal ed ho pregato di avere un poco di fortuna. Non potendo effettuare post produzione sulle foto in quanto non sviluppo personalmente i rullini ma mi affido ad un laboratorio professionale, ho automaticamente depennato la possibilità di operare crop o aggiustamento di luci, ombre e nitidezza ed ho cercato conseguentemente di eseguire le foto quando i soggetti erano in luce e quando lo sfondo non era reso troppo complesso da rami od altri elementi di disturbo. Quello che ho ottenuto potete vederlo. La soddisfazione che ho provato nel cimentarmi in questa che, per noi drogati digitali, è comunque una sfida, non riesco a quantificarla.


  • Piede alternativo a sgancio rapido Mengs NF-200

    Piede alternativo a sgancio rapido Mengs NF-200

    Una valida alternativa ai piedi originali dei teleobiettivi Nikon

    Sono diverse le scelte costruttive dei produttori di attrezzature fotografiche che possono risultare spiazzanti per il cliente finale, quello che paga, giusto ricordarlo. Alcune in modo eclatante, altre solo dal punto di vista della praticità, ma tutte un po’ incomprensibili a chi usa abitualmente queste attrezzature. Per limitarmi ai prodotti di “casa mia”, una delle cose che non ho mai capito appieno è la scelta di Nikon di usare per i suoi teleobiettivi piedi di supporto che non sono nativamente compatibili con lo standard Arca-Swiss, uno dei sistemi più diffusi ed utilizzati per agganciare macchine fotografiche ed obiettivi alle teste di vario tipo dei treppiedi.

    Piede alternativo a sgancio rapido Mengs NF-200

    Questa scelta ingegneristica costringe i possessori di teleobiettivi Nikon a dotarsi di piastre aggiuntive compatibili che vanno avvitate alla base del piede originale, aggiungendo di fatto peso, ingombro e introducendo la possibilità di sganci inattesi con il rischio di sbagliare la foto (se va molto bene) o di far cadere fotocamera e obiettivo a terra, con danni decisamente elevati. Per rimediare a questa mancanza, ci vengono in aiuto prodotti aftermarket commercializzati da diverse aziende ma con il comune denominatore di essere sempre economici e, abbastanza spesso, decisamente validi. Nel caso specifico mi riferisco al piede alternativo a sgancio rapido Mengs NF-200.

    Si può utilizzare con lo zoom 70-200mm ed il 500mm Nikon

    Gli unici obiettivi “lunghi” che posseggo ed uso spesso sono lo zoom Nikkor AF-S 70-200 mm f/2.8 G ED VR ed il tele Nikkor AF-S 500 mm f/5.6 E PF ED VR; entrambi hanno il piede descritto all’inizio che necessita di una piastra aggiuntiva per essere attaccato alla testa sia di tipo Arca-Swiss che proprietaria Manfrotto. La bella notizia è che i piedi originali sono facilmente smontabili a mezzo di una piccola manopola di serraggio e di un gancio di fermo sbloccabile a mezzo di una levetta a molla. E l’altra bella notizia è che, altrettanto facilmente, si può inserire il Mengs NF-200 al loro posto e renderlo solidale con il medesimo sistema di quello originale. L’ultima bella notizia è che questo modello di piede va bene per entrambi gli obiettivi. Questo prodotto mi sembra molto ben costruito: tanto metallo, manopola di serraggio fin troppo generosa, scanalatura Arca-Swiss eseguita bene e parti mobili decisamente ridotte al minimo e da usare solo una volta all’atto del montaggio, ingombro ridotto rispetto all’originale e finiture più che dignitose. Ovviamente mi riservo di integrare questa piccola recensione con note relative all’uso intensivo che farò prossimamente, ma già le prime impressioni sono decisamente buone. Il prezzo non ve lo dico perché lo stesso modello è venduto da diverse aziende a mezzo del noto colosso di vendite online e a prezzi a volte anche molto diversi ma, comunque, sempre ampiamente abbordabili.