Come è andata, con la fotografia, al tempo del Covid-19?
Spoiler: male, malissimo.
D’accordo, ho rubacchiato il titolo pensando al romanzo di Màrquez, ma credo ci possa stare. Cosa è successo in questi mesi, problematici come non mai da qualsiasi punto di vista, alla mia fotografia? Come ho sopperito alla impossibilità di uscire per scattare foto a causa della quarantena forzata imposta dall’emergenza Covid-19?
Male, decisamente male.
E’ vero che gli stimoli visivi in un ambiente che si conosce a memoria non possono essere allettanti, ma se si desidera far lavorare l’otturatore, qualcosa si trova sempre, in qualsiasi condizione e luogo, propria abitazione compresa. Ed invece no, è stato un disastro, per una serie di concause materiali e morali diverse.
Mi sono dedicato alla fotografia naturalistica – un pochino addomesticata, a dire il vero – ritraendo gli amici pennuti che frequentano il giardino ma non è stata una grande esperienza per svariati motivi: la mancanza di soggetti prima di tutto perché, escluse le meravigliose cinciallegre che hanno pensato bene di mettere su famiglia nella siepe e di cui ho avuto il privilegio di fotografare i nuovi arrivati, tutti gli altri sono “emigrati” verso campagna e boschi, come è giusto che sia in questo periodo; senza contare che l’abbondanza di vegetazione sugli abituali rami di posa mi precludeva di fatto lo scatto in parecchie occasioni.
Ho cercato di virare verso la macro ma, siccome io con la roba con meno di due o con più di quattro gambe non ci vado molto d’accordo – questione di pelle – ho desistito subito, rinunciando a priori anche a gocce che cadono nelle bacinelle, città costruite con minuteria di ferramenta e sfondo improbabile, eccetera.
Ho cercato di abbracciare la fotografia di strada – street photography, per quelli bravi semplicemente “street”, mi provoca l’orticaria solo a pronunciarlo – ma poiché le persone non potevano liberamente circolare a causa dei divieti, dal balcone di casa potevo solo fotografare la signora di importazione che fa regolarmente pisciare il suo cagnolino sul mio muretto di cinta.
Non parliamo poi di foto architettonica: casa mia (e tutto il quartiere in cui abito) è stata costruita da una onesta e capacissima impresa artigiana locale che, però, con Le Corbusier non ha mai avuto punti di contatto.
Sono arrivato, per disperazione, agli autoritratti ma, anche in questo caso, il soggetto è uno, indivisibile, inappetibile e ottenuti un paio di scatti buoni per aggiornare la biografia del sito internet o dei socials, la novità si è subitamente esaurita. Qui ho toccato il fondo, tengo a precisarlo.
Qualche soddisfazione l’ho avuta, fortunatamente, dalle foto di fiori, visto che il periodo di chiusura totale (quando sento dire “lockdown” mi sale l’istinto omicida) è trascorso in concomitanza allo sbocciare della Primavera e, un po’ in giardino da me e un po’ in trasferta nei giardini dei vicini vestito a mo’ di chirurgo coronarico, qualcosa ho tirato fuori.
Una cosa, però, l’ho realizzata chiaramente e tristemente: anche in chi, come me, non è artista ma semplice mestierante, la mancanza della libertà di scegliere dove-come-quando scattare, la condizione psicologica altalenante generata dai timori per il contagio, per il futuro prossimo, dalla percezione di dilettantismo (spero non cinico calcolo) da parte di chi avrebbe dovuto guidarci fuori dall’emergenza, da tutta una serie di fattori inesplorati e quasi mai piacevoli hanno provocato una aridità creativa mai provata, rendendo di fatto difficile scattare qualsiasi tipo di fotografia, anche la più scontata e tecnicamente semplice. Ed il riscontro di ciò l’ho avuto il primo giorno di uscita dopo la riapertura delle stalle: ho fatto un giretto in campagna (più di 150 metri da casa e addirittura fuori dal Comune di residenza!!!), ho scattato un paio di foto in leggerezza, senza pretese e senza pianificazione, così, per dare aria all’otturatore ma la foto ottenuta mi è piaciuta, mi ha dato la sensazione di essere mia, di appartenermi.
Tutta un’altra vita, sotto ogni aspetto.
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