Autore: Sergio Marcheselli

  • Tutti gli anni, un giorno

    Tutti gli anni, un giorno

    Quando l’Autunno colora i boschi

    C’è un periodo dell’anno che attendo con trepidazione ed insieme a me, suppongo, tantissimi altri appassionati di fotografia: l’Autunno. Uno potrà anche non amare in modo particolare questa stagione, un po’ perché significa meno ore di luce, la fine delle giornate calde, l’arrivo delle prime nebbie e delle prime piogge insistenti, eccetera ed io non faccio testo perché sono nato in questo periodo dell’anno e perché non amo in modo particolare il caldo estivo, ma dal punto di vista della gratificazione visiva – e, di conseguenza, fotografica – sfido chiunque a pescare alle nostre latitudini una stagione più spettacolare.

    I boschi si colorano del foliage autunnale

    In particolare sono le zone boschive di colline e montagne che indossano la loro veste migliore: le foglie dei vari tipi di piante assumono colori vivaci e quelle che non cambiano mai livrea, tipo gli abeti, collaborano con il loro sempreverde a formare un forte contrasto con i gialli, gli arancioni, i rossi delle altre specie. Senza dimenticare il tappeto color bronzo delle foglie cadute, su cui camminare è un piacere atavico; oppure lo scorrere dei torrenti rivitalizzati dalle piogge, con il loro sussurro nelle zone piane o il fragore dei salti d’acqua; e i profumi della terra bagnata, del legno, delle foglie stesse, dei funghi che spuntano ovunque.

    Fotografare l’Autunno

    E’ perfino superfluo dirlo, ma gli spunti fotografici legati a questi mesi sono innumerevoli: c’è materiale a volontà per il paesaggista, ovviamente; ma anche chi ama fotografare scorci più intimi o, addirittura, il micromondo che popola i boschi, trova occasioni in abbondanza; senza scordare i fotografi naturalisti, che possono sbizzarrirsi a fotografare i grandi mammiferi così come l’avifauna stanziale o di passo.

    Basta indovinare il periodo giusto

    Ecco, mentre per gli altri generi fotografici, una settimana in più o una settimana in meno nel corso del periodo autunnale non fa molta differenza, chi desidera fotografare i paesaggi con il foliage nella sua veste migliore, deve essere bravo e fortunato. Bravo a programmare le sessioni di scatto nei giorni giusti, nei quali la colorazione delle piante raggiunge il suo apice  e non è ancora “troppo verde”; e fortunato, soprattutto fortunato, perché basta un temporale particolarmente forte o alcune ore di raffiche di vento freddo per far cadere la maggior parte delle foglie dagli alberi. E allora è tutto un consultare le previsioni meteorologiche, rapportandole alle altitudini dei luoghi in cui si prevede di scattare le foto e sperando che siano sufficientemente precise nel medio periodo di una settimana; si ritorna con la memoria alla stagione estiva appena trascorsa, facendo mente locale sulle precipitazioni che ci sono state e sulla loro abbondanza, per stabilire se le piante possano o meno aver sofferto della siccità e quindi essere più avanti con il periodo in cui le foglie cambiano colore o cadono; si consultano in continuazione le webcam dei rifugi montani per cercare di capire a che punto è la colorazione del bosco; si contrattano giorni di ferie con l’ambiente lavorativo cercando di ottenere un paio di giorni nelle settimane “strategiche” del periodo, ed avere qualche ora in più da dedicare alla trasferta fotografica; si  controlla minuziosamente l’attrezzatura, sia quella fotografica che quella da trekking, per essere pronti ad ogni evenienza. E si fanno anche parecchi chilometri a vuoto, recandosi in un luogo che si ritiene pronto per essere fotografato per poi scoprire che no, è troppo presto, occorre tornare la prossima settimana, quando la colorazione sarà all’apice del suo splendore. Sempre meglio, in ogni caso, di arrivare da qualche parte per constatare che il vento della sera precedente ha fatto piazza pulita del fogliame e sono rimasti solo tronchi e rami scheletrici. E capita, eccome: non più tardi di due anni fa avevo solo un giorno a disposizione per la trasferta fotografica e mi sono fatto un paio di ore di auto, più un’ora abbondante di salita a piedi, carico di attrezzatura, solo per scoprire che avrei potuto esclusivamente fotografare la silhouette degli alberi, perché il fogliame era tutto a terra. E allora niente: si esclama qualche “accipicchia”, ci si trasforma di colpo in fotografi macro e si cerca di portare a casa lo scatto di qualche bella castagna o di un fungo particolarmente espressivo e ci si ripromette di essere più previdenti il prossimo anno, di trovare un giorno giusto.

    Cosa portare nello zaino

    Bel dilemma, come sempre. Si vorrebbe avere con sé tutto l’arsenale, per poter avere la possibilità di fotografare il paesaggio con l’obiettivo grandangolare, ma anche sfruttare la compressione dei piani utilizzando il teleobiettivo, oppure un obiettivo macro per i preziosi particolari del bosco. Ma tutto ciò si scontra fatalmente con le camminate impegnative che bisogna spesso affrontare per raggiungere i luoghi di scatto. E allora, a meno di avere un mulo per amico (o un amico mulo), conviene operare delle scelte, dolorose ma necessarie. Ovviamente mi guarderò bene dal consigliare una configurazione di obiettivi piuttosto che un’altra: tutto dipende dai gusti e dalla sensibilità personale. Per quel che mi riguarda ho imparato, a mie spese, a “limare” sempre di più il contenuto dello zaino: in genere porto con me la reflex o, visti i recenti sviluppi, la mirrorless; come obiettivo principale scelgo spesso lo zoom 16-35mm, in genere affiancato dal 24-70mm; mi riservo di portare il 70-200mm solo se prevedo di raggiungere un punto elevato o, comunque, panoramico. Anche se un poco ingombranti, non posso fare a meno di infilare nello zaino i filtri, soprattutto il polarizzatore ed un filtro ND per le lunghe esposizioni; cavo di scatto remoto, batterie e schede di memoria di riserva e, naturalmente, il treppiede, croce e delizia dei fotografi ma, a mio parere, oggetto pressoché indispensabile.

     

     

     

     

     

     

     

  • Telecomando Photoolex T710N per Nikon Z7

    Telecomando Photoolex T710N per Nikon Z7

    Alternativa al telecomando Nikon MC-36a

    Ero alla ricerca di un telecomando (non ha importanza se con cavo o senza) che fosse funzionale per gli scatti con lunga esposizione e che potesse gestire i tempi di scatto più lunghi di 30”, quelli della modalità bulb, per intenderci. A dire la verità ho già fra la mia attrezzatura un telecomando di questo tipo, il Nikon MC-36a, che ha le funzioni di intervallometro, lunga esposizione (utilizzabile anche simultaneamente con l’intervallometro), autoscatto, esposizione a tempo e meccanismo di blocco scatto; purtroppo questo ottimo prodotto ha la peculiarità di poter essere utilizzato solo con determinate fotocamere (tipo la Nikon D850 o la D500): il connettore è del tipo a spina 10-pin e non è compatibile con la porta accessori della Nikon Z7, una sorta di usb in formato proprietario Nikon che si trova anche su altre fotocamere, tipo la D750. Ci sarebbe il bellissimo WR-1 ma, come spesso accade, ‘bellissimo’ fa rima con ‘costosissimo’ e non era mia intenzione investire troppo in un ennesimo accessorio di questo tipo.

    Photoolex T710N

    Spulciando il web, leggendo qua e là impressioni d’uso e caratteristiche operative, ho scelto di acquistare il Photoolex T710N, che ha le stesse modalità operative del Nikon MC-36a ma, a differenza del parente nobile, ha il tipo di connettore compatibile con la Nikon Z7, costa meno e promette di essere comunque un prodotto dignitoso. Come bonus da non sottovalutare, questo telecomando viene commercializzato con entrambe le versioni dei cavi per Nikon (10-pin e usb, per una lunghezza di 120 cm) ed esiste anche la versione per prodotti Canon e tutti, ovviamente, sono utilizzabili anche con fotocamere di altre marche che adottano le medesime connessioni. Esternamente si presenta un po’ come tutti i prodotti di questo tipo, la classica “saponetta lunga” (perdonatemi l’orribile similitudine), con un display lcd che può essere illuminato con una gradevole luce azzurrognola consentendone l’utilizzo al buio, condizione d’uso più frequente di quanto si pensi; sul corpo del telecomando sono presenti il pulsante di scatto che è anche possibile bloccare per non restare diversi minuti con un dito premuto sul pulsante stesso durante scatti molto prolungati, quello per attivare l’illuminazione, quello per avviare le funzioni di timing o scatti intervallati, singoli o plurimi, il tasto per il set delle funzioni e un joystick per scorrere tra le impostazioni. Dal telecomando parte poi il cavo, anzi i cavi perché, come detto, possono essere intercambiabili e da ciò si comprende che il cavo trasmissione dati non è solidale con il corpo del telecomando ma è ovviamente rimovibile grazie ad uno spinotto; entrambe le connessioni sono precise ed entrano senza sforzo negli alloggiamenti dei corpi macchina. Il Photoolex T710N funziona con due batterie stilo tipo AAA e mi raccomando di prestare attenzione al posizionamento nello zaino dell’accessorio ed ai lunghi periodi di inutilizzo perché non è presente un tasto di spegnimento, il telecomando rimane sempre attivo.

    Conclusioni

    Dal punto di vista costruttivo non è, e non può esserlo, granitico; ma, se si esclude lo sportellino del vano batterie che appare un poco debole, non è nemmeno un giocattolino. Il manuale delle istruzioni è solo in lingua inglese, ma l’uso del prodotto risulta comunque intuitivo. Naturalmente devo avere più tempo per testare affidabilità e durata dei materiali, ma durante le prove effettuate in condizioni proibitive (in giardino a fotografare fiori e con una bibita nell’altra mano) mi è parso funzionale e al momento soddisfa le mie esigenze.

  • Lensgo – Custodia schede memoria e batterie

    Lensgo – Custodia schede memoria e batterie

    Sto usando con soddisfazione questa custodia protettiva per schede di memoria e batterie della fotocamera: il Lensgo mod. D850 (“Coincidenze? Io non credo” cit.). Esistono in commercio da tempo le custodie protettive per le schede di memoria, ma non ne avevo mai vista una – fino ad ora – che potesse conservare e proteggere sia le schede che le batterie, oggetti entrambi preziosi (in tutti i sensi) ma facilmente smarribili o danneggiabili.

    Cosa è esattamente il Lensgo?

    Si tratta di una custodia rigida, in materiale plastico di buona qualità, con un bordo sigillante in silicone che impedisce la penetrazione di acqua o polvere e il cui interno in gomma morbida può alloggiare due batterie da 39x56x21 mm (le misure delle Nikon EN-EL15 che uso io) e fino a 14 schede di memoria fra CF, SD, TF e XQD, ovviamente in numero diverso a seconda del formato. Ci sono addirittura sul bordo due indicatori corrispondenti alle batterie alloggiate che ricordano lo stato di carica della batteria.

    Pur essendo così capiente, la custodia è tutto sommato facile da riporre nello zaino, poiché misura esternamente solo 152x84x30 mm e non è pesantissima, perché vuota arriva solo a 180 gr.

    Ho visto che ne esistono in commercio diverse tipologie e quindi esiste solo l’imbarazzo della scelta. Anche il prezzo, considerando l’utile servizio che svolge, non è esagerato. Si trova facilmente in vendita sui siti di e-commerce più noti.

  • Obiettivo AF-S NIKKOR 500mm f / 5.6E PF ED VR

    Obiettivo AF-S NIKKOR 500mm f / 5.6E PF ED VR

    Il Nikkor AF-S 500mm f/5.6E PF ED VR (da ora in poi, per brevità, scriverò 500PF) è uscito sul mercato verso la fine del 2018. Io possedevo lo zoom Nikkor 200-500mm f/5.6E ma, resomi conto che praticamente lo usavo sempre “inchiodato” a 500mm ed essendo invogliato dalle caratteristiche del nuovo nato, l’ho venduto ed ho acquistato il 500PF. Lo sto adoperando da un po’, sia con la DSLR D850 che con la mirrorless Z7 e credo di poter scrivere alcune considerazioni sulla mia esperienza, ricordandovi che non sono un tecnico e le mie sono opinioni assolutamente personali e derivanti dall’uso sul campo e non, assolutamente, da test scientifici, per i quali ci sono siti ultra-specializzati.

    Qualità costruttiva

    L’obiettivo è prodotto in Cina, a differenza della maggior parte degli altri obiettivi professionali Nikon, che sono realizzati in Giappone. In passato un esperto poteva immediatamente distinguere un obiettivo costruito in Giappone da un obiettivo costruito in Cina valutando la qualità costruttiva, ma direi che in questo caso avrebbe qualche tentennamento, perché la qualità e la finitura della costruzione sono assolutamente buoni. I materiali della struttura esterna sono “rassicuranti”. L’anello di messa a fuoco gira molto fluidamente così come il collare del treppiede. Gli interruttori a leva sono robusti e precisi. Inoltre, come dichiarato da Nikon, l’obiettivo è resistente alle intemperie e la lente anteriore è trattata al fluoro, per respingere le gocce d’acqua. Anche il paraluce in dotazione è valido e, cosa importantissima, con un blocco di aggancio che ne impedisce il distacco accidentale ed è sicuramente molto meglio del paraluce presente sull’obiettivo zoom Nikkor 200-500mm f/5.6E che, in alcune occasioni, si è staccato dal corpo dell’obiettivo, obbligandomi a difficoltosi recuperi in posti non proprio agevoli. Quindi direi sinteticamente buoni voti sulla qualità della costruzione.

    Lunghezza e peso

    Non è possibile confrontare il 500PF con altri teleobiettivi da 500 mm, non ha molto senso, per il semplice motivo che l’obiettivo è quasi 1500 gr. più leggero del Nikkor 500mm f/4E, per esempio, e non renderei giustizia a nessuno dei due. Quindi ritengo sia più corretto confrontarlo con il Nikkor 70-200mm f/2.8 G. Il peso del 500PF (con copriobiettivo, con piede del treppiede e con paraluce montato) è 1600 gr. circa e anche il peso del 70-200mm f/2.8 G è 1600 gr. circa; devo aggiungere altro? E per quanto concerne la lunghezza? Nuovamente l’unico paragone ragionevole è con il 70-200 f/2.8 G e quindi: il 500PF arriva a 24 cm. circa e il 70-200 f/2.8 G arriva a 21 cm. circa, entrambi misurati senza il paraluce in posizione. Quindi il 500PF è solo di circa 3 cm. più lungo del 70-200 f/2.8. Da ciò di deduce che questo obiettivo è – se confrontato con altri obiettivi prime 500mm – assolutamente piccolo.

     

    Caratteristiche fisiche

    Mi viene da dire equilibrio. Trovo che il 500PF sia ben bilanciato sulle DSLR di fascia alta di Nikon, è come avere un 70-200 montato sulla fotocamera. Con una fotocamera più leggera come la mirrorless Z7, si avverte un leggero sbilanciamento frontale ma non tanto da costituire un problema, anche perché non bisogna scordare che quando si usa il 500PF con la Z7 è necessario montare l’adattatore di baionetta FTZ nel mezzo, che aggiunge circa altri 3 cm alla lunghezza totale della configurazione.

    Ergonomia e controlli

    L’ergonomia e le posizioni dei pulsanti sono simili a quelle della maggior parte dei teleobiettivi Nikon. Questo obiettivo viene fornito con un set di 4 pulsanti di attivazione AF e, almeno per me, sono posizionati esattamente dove la mia mano si appoggia istintivamente quando si tiene in mano l’obiettivo. Questi pulsanti possono essere utilizzati per mettere a fuoco, bloccare la messa a fuoco o per “richiamare la memoria” di un punto pre-focalizzato e precedentemente memorizzato utilizzando un altro pulsante sull’obiettivo, il Pulsante Imposta Memoria. Naturalmente, se si dispone di un corpo macchina che supporta la funzionalità, è possibile utilizzare il pulsante di attivazione AF per passare immediatamente a una diversa modalità Area AF. E qualcosa che ho appena imparato giocando con il 500PF sulla Nikon Z7: se si utilizza la funzione “richiamo memoria”, quando si preme l’attivazione AF il pulsante non solo mette a fuoco l’obiettivo sulla posizione memorizzata in precedenza, ma utilizza automaticamente il focus peaking per mostrare ciò che effettivamente è a fuoco.

     

    Prestazioni VR e “impugnabilità”

    Tenere in mano il 500PF è incredibilmente più facile che tenere in mano uno degli altri obiettivi da 500 mm (ma anche focali più corte) che abbia mai provato. Se ti trovi in ​​una situazione in cui sei costretto ad usare l’obiettivo a mano libera, le dimensioni contenute e il peso ridotto di questa lente gli conferiscono un enorme vantaggio rispetto ai “tradizionali” 500mm. A tale proposito, ho avuto proprio recentemente l’esperienza di una sessione fotografica di oltre quattro ore in Val Roseg (ne ho scritto qui: I tesori della Val Roseg); ebbene: ho di fatto rinunciato all’utilizzo del treppiede per essere più reattivo agli spostamenti veloci dei soggetti ed ho scattato a mano libera per tutto il tempo senza interruzioni e riposandomi solo saltuariamente ed alla fine della sessione avevo solo un poco di indolenzimento delle braccia, dovuto più alla posture innaturali e alle condizioni climatiche proibitive che al peso dell’insieme obiettivo/fotocamera (sia D850 che Z7 alternate nell’accoppiamento con il 500PF). Per quanto riguarda il sistema VR di riduzione delle vibrazioni, Nikon dichiara un vantaggio di 4 stop quando si utilizza in modalità VR normale e personalmente non ho motivo di dubitare di questa affermazione, visto il sistema VR sembra molto efficace.

    Prime impressioni

    Viviamo in un’epoca di affermazioni esagerate – a volte persino palesemente false – legate al marketing. I prodotti con un aumento del 10% delle prestazioni sono etichettati come “rivoluzionari”. Non voglio assolutamente contribuire a tutto questo e avanzare affermazioni su ciò che questo obiettivo potrà rappresentare per altri fotografi. Quindi dirò tre cose riassumendo la mia prima impressione generale del 500PF: a) Urca! b)  Questo obiettivo ha già superato le mie aspettative. Per essere onesti, non erano alte: sapevo che l’obiettivo sarebbe stato piccolo, facile da trasportare e “conveniente” da usare. E mi aspettavo che sarebbe stato sufficientemente valido dal punto di vista ottico. Quindi immaginavo che il suo principale punto di forza sarebbe la sua dimensione relativamente ridotta e già solo per questo motivo sarei stato disposto ad accettare un leggero “degrado” della qualità dell’immagine rispetto ai “migliori” super-tele di Nikon. Ma sono stato completamente sorpeso da quanto sia valido questo obiettivo sia nelle prestazioni ottiche che in quelle di autofocus. È proprio lì “in zona” con i migliori super teleobiettivi Nikon, al netto, ovviamente, dell’apertura minima f/5.6. c) Non dico che questo obiettivo sarà un prodotto rivoluzionario per chiunque altro, ma lo è per me. Il mio uso di un obiettivo “impegnativo” da 500 mm non sarà più limitato alle aree in cui può essere facilmente trasportato, o facilmente impostato e utilizzato. Questa lente mi seguirà spesso nei luoghi che frequento per le foto naturalistiche ed in ogni occasione in cui sarebbe stato possibile portare il 70-200mm f/2.8, offrendomi la possibilità di scattare fotografie che, diversamente, non avrei potuto ottenere.

  • I tesori della Val Roseg – video

    Avevo visto sul web alcuni video sugli uccellini della Val Roseg e sulla loro confidenza con l’uomo. Ma ero un po’ scettico, al riguardo, trattandosi pur sempre di animaletti selvatici  e mi sembrava altamente improbabile che fossero temerari fino al punto di prendere il cibo direttamente dalle mani. Finché non ho provato personalmente. Un poco di semi misti ad arachidi tritate nel palmo della mano, un attimo di attesa immobile ed inizia lo spettacolo.

    Una emozione unica.

  • I tesori della Val Roseg – Il Bosco Delle Cince

    I tesori della Val Roseg – Il Bosco Delle Cince

    Domanda: “Si possono fare 325 km all’andata ed altrettanti al ritorno nel giro di 24 ore solo per andare a fotografare un pallina di piume di 13 grammi?” Risposta: “Sì. Se sono mesi che hai in testa il chiodo fisso di fotografare la cincia dal ciuffo, si può fare anche questo”.

    Viaggio in Val Roseg

    E l’ho fatto. Ho caricato armi e bagagli ed ho fatto un giretto fino alla bellissima Val Roseg, nel Cantone svizzero dei Grigioni, ai piedi del massiccio del Bernina. Perché fare tanta strada? In fin dei conti la cincia dal ciuffo si trova anche sulle montagne dell’arco alpino italiano e sull’Appennino Tosco-Emiliano. Sì, vero, ma occorre prima di tutto individuarla, poi essere fortunati ed infine sperare che si avvicini a tiro di obiettivo. Invece le cince della Val Roseg sono un discorso a parte: in questo luogo sono coccolate, con cibo e rispetto, dagli abitanti, dai turisti e dalle autorità ed hanno progressivamente sviluppato una fiducia nei confronti dell’uomo che ha pochi eguali altrove.

    La meraviglia del Bosco Delle Cince

    Mentre lo scrivo ancora faccio fatica a crederci: si cammina per pochi chilometri nel bosco innevato avendo fin da subito la sensazione di sentirsi osservati da mille occhi che dall’alto dei pini e dei larici ti scrutano con interesse; quando si sente il cinguettio di queste meraviglie ci si ferma, si posano a terra un po’ di semi e, nel giro di pochi minuti, comincia l’andirivieni frenetico e ipnotizzante di questi (e molti altri) passeriformi; si avvicinano sempre meno timorosi, a brevissima distanza, arrivando persino a posarsi su una mano che offre cibo (video) o (giuro, mi è successo!) sul cappello di lana del fotografo in azione. Tengono loro compagnia a tavola anche splendidi scoiattoli bruni che reclamano a gran voce la loro porzione.

    Le foto degli abitanti del Bosco Delle Cince

    Ecco, le foto. Avevo letto diversi articoli che spiegavano come in Val Roseg non sia strettamente necessario portare gli obiettivi “lunghi”: i soggetti delle foto si avvicinano talmente tanto a chi fotografa che già un 200mm basta ed avanza e che, anzi, a volte si riesce persino a rimanere più “corti”. E’ anche vero che una focale più lunga isola il soggetto dallo sfondo e quindi ho optato per questa configurazione: la Nikon D850 e la Nikon Z7 come corpi, entrambi full frame, rinunciando di fatto al fattore di moltiplicazione di una DX e privilegiando la grande disponibilità dati di un file da sensore FX; il Nikkor 70-200mm f/2.8 stabilizzato per avere un po’ di alternative sulla lunghezza focale e, soprattutto, per avere un’ampia apertura disponibile in caso di giornata nuvolosa o zone particolarmente ombreggiate del bosco; e infine il Nikkor 500mm f/5.6 stabilizzato perché è leggero, poco ingombrante, se deve isolare il soggetto lo fa veramente e, sinceramente, perché ormai non riesco ad uscire per sessioni di caccia fotografica senza infilarlo nello zaino, mi sentirei nudo (bruttissima immagine…).

    Attrezzatura utilizzata

    Ho portato con me, inoltre, tutte e quattro le batterie di riserva che possiedo, prevedendo un clima gelido che diminuisce di fatto le prestazioni delle stesse ed è stata una scelta indovinata perché, in cinque ore di scatti ed utilizzando entrambi i corpi macchina, con messe a fuoco ripetute e utilizzo saltuario dell’LCD, sono servite; tanto per dire: a mezzogiorno, malgrado il soleggiamento, la temperatura era -1° C, immaginate il prima e il dopo. Un’avvertenza, credo superflua, ma non si sa mai: abbiate sempre l’accortezza di conservare le batterie di riserva vicino al corpo, in una tasca interna dell’abbigliamento; se le tenete nello zaino, sono meno protette dal freddo e diminuisce di fatto la loro efficienza. Ho pensato di portare con me anche il treppiede ma, effetivamente, non l’ho nemmeno aperto: per seguire proficuamente le evoluzioni di cince e compagnia volante ero troppo impacciato; in pratica ho fotografato sempre a mano libera, producendo inevitabilmente più scatti mossi o sfocati, da cestinare, ma almeno ero abbastanza rapido a puntare l’obiettivo verso il punto in cui si era posato il soggetto di turno. In ogni caso vi consiglio di portarlo ugualmente: non si può mai sapere e non averlo potrebbe pregiudicare un’uscita fotografica.

    Completavano l’attrezzatura: zaino con spallacci comodi, minuteria varia figlia del “non si sa mai”, semi assortiti per gli uccellini (poi vi dico) e abbigliamento adatto a freddo e neve: in questo periodo in Val Roseg può fare freschino e non sono una rarità le nevicate improvvise; la notte precedente all’uscita, per esempio, la temperatura è scesa a -9° C ed è nevicato ma sono state registrate anche minime decisamente inferiori, perfino durante il giorno; passando poi parecchio tempo fermi, in attesa di fotografare, è veramente consigliabile vestirsi in modo adeguato e non lesinare sugli strati, ricordando che in fin dei conti la parte iniziale del sentiero si trova a 1750 metri di altitudine ed in fondo ad esso, dopo circa 7 chilometri, si arriva circa ai 2000 metri, quindi non esattamente clima tropicale. Comunque, se il meteo è almeno clemente, grosse problematiche fotografiche non ce ne sono: come ho già detto basta tenere presente che si possono avere nello stesso istante e nel medesimo luogo illuminazioni fortemente diverse dovute ai chiaroscuri del bosco o del sole che gioca a nascondino con le nuvole, se c’è neve (e in questo periodo ce n’è tanta) attenzione a non fare ingannare l’esposimetro e ai riflessi improvvisi ed indesiderati, se desiderate portare a casa qualche foto di paesaggio portatevi un obiettivo dedicato perchè ci sono innumerevoli scorci che vanno dal bello al meraviglioso.

    La “pappa” degli uccellini

    Dicevo semi assortiti: in realtà non ho utilizzato buste già pronte che si trovano nei negozi o anche in alcuni dispenser dislocati lungo il sentiero e mi sono affidato alla rassicurante cucina mantovana, con una miscela di sicuro effetto (lo so perché l’ho testata ripetutamente con le cince “cittadine” che frequentano il mio giardino): semi di girasole belli grossi e arachidi tritate (non salate, mi raccomando!), tutto biologico e conservato accuratamente. Il bello è che, oltre ad attirare le cince (cincia dal ciuffo, cincia bigia, cincia mora, cinciallegra) questo cibo ha sortito il suo effetto anche sul picchio muratore, sulla nocciolaia e persino sullo scoiattolo bruno. Verso ora di pranzo ero tentato di assaggiarlo anch’io…

    Solo un’immagine, prima di concludere: mentre stavo tornando all’auto, appena lasciato il posto in cui mi sono fermato più a lungo, nel silenzio del bosco ho sentito un frullo d’ali e qualcosa mi ha sfiorato la testa andando a posarsi sul ramo di un pino di fronte a me, con una serie di piccoli cinguettii. Era una cinciallegra, che evidentemente controllava se mi fosse rimasto qualcosa da offrire. E poi non venitemi a dire che questo posto non è magico.

  • A “caccia” con la Nikon Z7

    A “caccia” con la Nikon Z7

    Ci ho impiegato un pochino ad uscire dalla mia comfort zone fotonaturalistica. Ero (sono) troppo abituato, troppo soddisfatto e troppo “tranquillo” con il mio set standard  di caccia fotografica per discostarmi dalla Nikon D500, dal Nikkor 70-200 f/2.8 e, amore recente, dal Nikkor 500 f/5.6 PF, che ha sostituito il seppur ottimo Nikkor 200-500 f/5.6.

    Eppure… Eppure c’era quel tarlo senza specchio, quella macchina appena acquistata che mi solleticava la curiosità. Sì, ok, l’avevo già usata parecchie volte per foto generiche e di paesaggio, ma non avevo mai messo alla prova la nuova mirrorless Nikon, la Z7, con la fotografia naturalistica. Poi mi sono deciso: prenotato il capanno all’Oasi LIPU di Torrile, messo nello zaino solo la Z7 ed il Nikkor 500 PF e null’altro (beh, un po’ di batterie, a dire il vero, a scanso di cattive sorprese) e via agli esperimenti.

    Brevemente, perché mi riservo di essere più esaustivo dopo ulteriori prove, alcune impressioni personali in ordine sparso:

    • la Nikon Z7, si può usare per la fotografia naturalistica, soprattutto per soggetti non indemoniati, che rimangano almeno qualche attimo “in posa”; per foto “al volo” (nel vero senso della parola) io devo ancora provare, anche se ci sono colleghi illustrissimi (date un’occhiata ai lavori di Alberto Ghizzi Panizza o Moose Peterson, tanto per farvi un’idea) che hanno già dato saggio di cosa sia possibile fare.
    • Il sensore full frame da 45 megapixel restituisce dei files di dimensioni più che generose, che possono essere croppati senza timore di perdere informazioni; la qualità, inutile dirlo, è quella delle ultime generazioni dei sensori utilizzati da Nikon, specialmente sulla serie D8xx, quindi informazioni a non finire a disposizione di chi (non io) sa lavorare bene in camera chiara. Nel caso specifico: sono capitato in una giornata non ideale, con poca luce, un po’ di foschia e la penombra del fitto bosco dell’Oasi di Torrile; per scattare con tempi appena decenti (1/320 di secondo quando andava bene) sono dovuto rimanere attorno ai 2000 ISO; qualcosa credo di aver portato a casa comunque.
    • Il fatto che non ci sia uno specchio a spostarsi rumorosamente nella fotocamera e che lo scatto sia assolutamente silenzioso è un bonus impagabile nella fotografia naturalistica: con animali selvatici abbastanza (e giustamente) sospettosi a pochi metri dalla postazione, è appagante scattare decine di foto in sequenza senza emettere alcun rumore.
    • Non attiene a quanto sto raccontando sulla Nikon Z7, ma il Nikkor 500 mm f/5.6, con la sua leggerezza, maneggiabilità e notevole qualità è una lente adorabile. Credo che passerà parecchio tempo prima che io pensi di cambiarla. Ne sono entusiasta.
    • Da rivedere: la funzionalità di messa a fuoco. Probabilmente devo trovare un settaggio migliore, sicuramente ho commesso degli errori in fase di impostazione, forse sono abituato troppo bene con l’autofocus fulmineo della Nikon D500 che è decisamente mostruoso, al livello della ammiraglia D5, ma mi riservo di riprovare, magari in condizioni di luce non così penalizzanti.
    • Note sparse: malgrado i de profundis degli haters del primo giorno, la batteria della Z7, la EN-EL 15b, è più che performante, tanto è vero che ho potuto scattare pressoché in continuo per circa tre ore e passa, senza avere la necessità della sostituzione e, anzi, sono tornato a casa con un po’ di carica residua. E’ anche vero che ho usato pochissimo lo schermo posteriore, se non per verificare qualche scatto, ma questo è quanto. Ergonomia: non ve lo dico nemmeno; ho già avuto modo di scrivere che apprezzo moltissimo le dimensioni generose della Z7, soprattutto dell’impugnatura destra e quindi mi sono trovato decisamente bene nell’usarla anche a mano libera e con il 500 mm montato; stesso discorso per i tasti fisici di impostazione: dopo i primi dieci minuti d’uso, anche chi fino a poco prima ha usato una fotocamera diversa, trova immediatamente tutto quello che gli serve e solo raramente deve ricorrere al menù della fotocamera.

    E le foto? Sono quelle che vedete. Se non vi piacciono, sappiate che la colpa è solo mia, perché l’attrezzatura ha praticamente tutti i numeri necessari per fare bene.

  • Sinagoga di Viadana

    Sinagoga di Viadana

    Grazie alla disponibilità del sig. Luigi Cavatorta, bravissimo studioso della storia viadanese, e accompagnato dall’amico fotografo Lorenzo Avosani, ho avuto l’occasione di visitare un vero gioiello nascosto dell’architettura della mia città: la Sinagoga ebraica. Una “scoperta” esaltante, testimonianza di una grandezza passata in questo caso valorizzata abbastanza bene, ma in altri numerosi casi colpevolmente ignorata.

    Riporto il testo di Wikipedia che la descrive:

    Per secoli la comunità ebraica di Viadana aveva usato una sinagoga completamente affrescata che era collocata in un edificio adiacente all’odierna sinagoga, nell’area del ghetto. Di questo oratorio oggi non restano che cinque stacchi pittorici conservati al Museo di Viadana.

    Ai primi dell’Ottocento, fu affidato all’architetto Carlo Visioli il progetto di una grande sinagoga neoclassica. La costruzione, pur giunta ad uno stadio avanzato, tuttavia non fu mai completata a causa del declino demografico della comunità locale.

    Della sinagoga rimane un grandioso ambiente circolare sormontato da una cupola finestrata sorretta sulle pareti da otto alte colonne ed archi monumentali. Il matroneo è murato. Dall’ingresso si vedono partire ancora le scale che dovevano portare ad esso, ma non sembra che siano state mai completate.

    L’interno è disadorno; gli arredi appartenenti alla comunità non vi furono mai apposti, rimanendo collocati in un locale adiacente che fungeva da sinagoga durante il periodo della costruzione. Nascosti nel 1943, durante l’occupazione nazista, furono successivamente restituiti e trasferiti a Mantova nel dopoguerra. La sinagoga fu venduta ed usata per oltre 30 anni come laboratorio di falegnameria.

    È degli anni recenti la riscoperta del valore storico e artistico della costruzione. La sinagoga è stata per la prima volta riaperta al pubblico dagli attuali proprietari  durante il Festival lodoviciano del 2004 ed è da allora occasionalmente utilizzata per eventi culturali.

  • “Vedere” in bianco e nero

    “Vedere” in bianco e nero

    Ci sono occasioni in cui ci si rende conto che una fotografia scattata a colori risulterebbe anonima, senza carattere,  mentre la stessa immagine prodotta in bianco e nero sarebbe certamente più interessante e significativa. Questione di luce, di contrasto, di linee, come è sempre stato. Però per molti di noi, abituati a vedere e “ragionare” a colori, immaginare una fotografia in bianco e nero prima di aver scaricato ed elaborato lo scatto in camera chiara (Lightroom, Camera Raw, eccetera) non è immediato, può costituire una vera e propria sfida, se non si è abituati.

    Ma con la Nikon Z7 (così come con la Z6) la questione si semplifica notevolmente. È sufficiente guardare attraverso il mirino (oppure lo schermo LCD) per vedere l’immagine desiderata a colori e, semplicemente premendo il tasto ‘i’ (info) sul dorso, trasformare la visione in bianco e nero; basta rilasciare il pulsante e tutto il mondo torna a colori. E quando decidiamo che inquadratura e luce sono quelli giusti, un colpettino (con cognizione, eh) al tasto di otturazione ed il gioco è fatto.

    E’ ovviamente necessario settare preventivamente il Picture Control con le impostazioni di scatto preferite (qui sotto ho messo uno screenshot di quelle che uso io sulla Z7) e, una volta pre-selezionata l’impostazione Monocromatico, semplicemente premendo, come detto, il pulsante ‘i’ (Info), sarà possibile visualizzare come sarà la nostra immagine in bianco e nero.

    D’accordo, non è un consiglio molto “didattico” ma sono convinto che questo piccola scorciatoia possa aiutarci ad imparare a “vedere” e realizzare le foto in bianco e nero. L’esperienza, come sempre, farà il resto.

  • Riserva naturale LIPU di Torrile e Trecasali

    Riserva naturale LIPU di Torrile e Trecasali

    La Riserva Naturale di Torrile e Trecasali è uno dei luoghi che frequento più volentieri quando ho voglia di fare qualche scatto naturalistico senza impazzire in pianificazione e senza sobbarcarmi chilometri su chilometri per raggiungerlo o, semplicemente, quando ho voglia di rilassarmi un poco nella piacevole quiete di questo luogo, in cui i soli rumori possono essere i richiami delle numerose specie animali che lo frequentano ed il passaggio del vento fra le fronde degli alberi (più qualche “mitragliata” di un fotografo che ci tiene a far sapere a tutti che ha la reflex più veloce del West…).

    La Riserva è nata nel 1988 grazie al lavoro ed alla indubbia passione di alcuni volontari della Lipu di Parma, che hanno gradatamente creato una zona umida naturale che si è unita alle preesistenti vasche di lavorazione di uno zuccherificio della zona e che ora ha una estensione totale che supera i 100 ettari. Nell’area della Riserva sono presenti, oltre al centro visitatori attrezzato anche per conferenze, 6 punti di osservazione, costituiti da capanni in legno attrezzati, raggiungibili attraverso comodi sentieri di terra battuta che si snodano fra la ricca vegetazione composta da alberi autoctoni, di molti dei quali si è persa ogni traccia nelle nostre campagne.

    In questo ecosistema palustre, nel corso degli anni, sono state osservate centinaia di specie di uccelli; sono presenti e nidificanti praticamente tutte le specie di ardeidi tipici del territorio italiano; numerose anche le specie di anatre, diversi rapaci e particolarmente preziosa è la presenza del Cavaliere d’Italia. Ovviamente numerosissimi i passeriformi, e altre presenze senza penne: mi è capitato di vedere scoiattoli, volpi ed altra “roba pelosa” solo intravista di sfuggita e assolutamente non riconosciuta.

    Come funziona? E’ semplice: si può accedere all’area della Riserva ed ai punti di osservazione semplicemente pagando l’ingresso giornaliero ma, meglio ancora sarebbe – come ho fatto io – sottoscrivere la tessera annuale LIPU che ha il doppio vantaggio di aiutare questa organizzazione nella sfida per preservare l’avifauna che popola o percorre il territorio italiano e consente nello stesso tempo di accedere liberamente alla aree protette per un intero anno, ovviamente nei giorni di apertura al pubblico che sono normalmente giovedì, sabato e domenica per la Riserva di Torrile e Trecasali; solo il Capanno Del Pettirosso rimane a pagamento anche per i soci, seppure per una cifra modesta ed il motivo è semplice: questo capanno di soli due posti è aperto unicamente nel periodo invernale e, dietro prenotazione telefonica o via mail, si ha la possibilità di osservare e, volendo, fotografare veramente da vicinissimo (sto parlando di pochi metri) picchi, cinciallegre, pettirossi, verdoni, cinciarelle ed altri uccellini meravigliosi che sono attirati dalle granaglie, dalle arachidi, dalle noci e dai semi di girasole messi dal personale volontario al momento della prenotazione in mangiatoie mimetizzate in tronchi di alberi caduti; inutile dire poi, che noci e nocciole richiamano anche alcuni scoiattoli golosi che, in cambio delle prelibatezze, sono disposti più o meno consapevolmente a farsi immortalare in tutta la loro eleganza e simpatia, magari anche mentre si dissetano nella grande vasca messa a disposizione per bagni ed abbeverata di tutti.

    Giusto ricordare che occorre osservare alcune semplici ma basilari regole di comportamento in questo ambiente: evitare di entrare in zone non aperte al pubblico; cercare di essere il più silenziosi possibile per non disturbare gli animali e, perché no, compromettersi la possibilità di vederli o fotografarli; mi vergogno a ricordarlo ma è meglio farlo: evitare assolutamente di sporcare questo luogo. E’ un santuario della vita ed è assolutamente indispensabile proteggerlo al meglio.

    Che attrezzatura fotografica serve? Dipende dalle possibilità individuali, ovviamente, ma una fotocamera che abbia una frequenza (“raffica”) di scatto importante ed una buona memoria temporanea (buffer) sarebbe benvenuta; non da’ fastidio se la suddetta fotocamera ha una valida gestione degli alti ISO, perché molto spesso si deve scattare a soggetti molto rapidi oppure in condizioni di luce precarie, soprattutto nella stagione autunnale ed invernale. Per le focali, ancora di più, vale il discorso possibilità ma già con un 300 mm su formato full frame o crop frame si riescono a fare cose carine. Utile ma non indispensabile un buon treppiede, magari con testa a bilanciere ma, ancora più utile, un bel bean-bag da appoggiare sui bordi delle feritoie dei capanni di osservazione; il treppiede consente di mantenere l’ottica all’interno del capanno e quindi di non far sporgere qualcosa che potrebbe turbare la tranquillità degli animali, il bean-bag consente una maggiore libertà di movimenti, anche se c’è sempre il rischio che qualche soggetto adocchi quella strana cosa cilindrica che sporge. A me piace rivestire il corpo dell’obiettivo ed il paraluce con quegli anelli mimetici in neoprene che hanno il doppio compito di rendere meno visibili gli obiettivi stessi e, al contempo, li proteggono dai numerosi piccoli urti che possono avvenire contro le strutture.

    Il mio zaino da caccia fotografica (mi piacciono i termini “caccia fotografica”: niente spargimenti di sangue e tanta soddisfazione nel portare a casa le “prede” fotografate sapendo che nella realtà sono ancora là fuori belle vispe) è solitamente composto da questi elementi:

    • Nikon D500, formato crop frame, che in pratica moltiplica le lunghezze focali degli obiettivi di x1,5, messa a fuoco rapida e precisa, raffica di scatto notevole e buffer pressoché inesauribile anche scattando in .raw;
    • Nikon D850, formato full frame, decisamente più “compassata” rispetto alla D500 ma con una qualità dei files notevole; posso usarla principalmente quando mi apposto nel Capanno Del Pettirosso, in cui i soggetti sono veramente molto vicini ed il fattore di moltiplica sugli obiettivi non è indispensabile; mi è capitato anche di usarla nei capanni dedicati agli aironi che a volte si avvicinano a sufficienza oppure per fotografare, sempre da questi capanni, il Martin Pescatore che con i suoi 30 grammi di coraggio e perseveranza non si cura di quegli sfigati che lo mitragliano di scatti dalle feritoie. Edit: ho provato in questi giorni ad utilizzare la Z7 abbinata al 500mm f/5.6, ne parlerò.
    • Nikkor AF-S 500mm f/5.6E PF ED VR, neonato di casa Nikon, leggero come lo zoom 70-200mm e con pressoché le stesse dimensioni, stabilizzato, con uno schema ottico nuovissimo che permette questi “contenimenti” e, di fatto, ne consente abbastanza agevolmente l’uso a mano libera; non è luminosissimo, ma per le mie esigenze e le mie tasche, è un gran obiettivo;
    • Nikkor AF-S 70-200mm f/2.8 ED VR, luminoso, abbastanza veloce, stabilizzato, qualitativo; riesco ad usarlo quasi esclusivamente nel Capanno del Pettirosso, ma quando posso farlo, i risultati sono spesso appaganti;
    • treppiedi Manfrotto MT055X PRO3 in alluminio con testa a bilanciere Benro GH3;
    • bean-bag “made in China” riempita non a fagioli ma con le “patatine” di polistirolo, decisamente più leggera da portare a spasso e assolutamente pratica; ottima anche per sedersi ogni tanto sulle monastiche panche di legno dei capanni;
    • ho rivestito gli obiettivi con le apposite coperture mimetiche della americana Lens Coat dedicate ai singoli modelli: molto ben sagomate, robuste, “rassicuranti” per me che ho sempre il patema di rompere qualcosa, piacevolmente e non grossolanamente mimetiche;
    • poi minuteria assortita: batterie di riserva, memorie XQD e SD, nastro leggermente autoadesivo mimetico per le riparazioni “volanti”, repellente per insetti (per la stagione estiva), testamento (per la stagione invernale, quattro ore immobile in un capanno non sono uno scherzo), pennellino, panno in microfibra e pompetta per le lenti, un praticissimo manuale proposto dalla LIPU che permette agli analfabeti ornitologici come me di provare a riconoscere le specie che fotografa.
    • E pazienza, tanta pazienza.

  • Nikon Z7 mirrorless

    Nikon Z7 mirrorless

    E alla fine la curiosità ha prevalso sulle convinzioni: nello zaino ho aggiunto la nuova nata di casa Nikon, la fotocamera mirrorless Z7 con, in kit, lo zoom 24-70mm f/4 S e l’adattatore FTZ.

    Non si è trattato di una resa senza condizioni, lo avevo sempre dichiarato apertamente: “Appena Nikon produrrà una mirrorless full frame con una ergonomia decente e caratteristiche interessanti, ci farò un pensierino.”. Ecco, diciamo che il pensierino è stato un tantino breve e nemmeno troppo approfondito, ma tant’è.

    Appena si ha fra le mani la Z7 la prima impressione è: “Urca, è davvero grossa!”; poco a che vedere con modelli di altri produttori provati in precedenza, in cui l’impressione iniziale era quella di avere fra le mani un giocattolo di plastica con tasti e ghiere scomodi.

    La Nikon Z7 è equipaggiata con un sensore CMOS full frame da 45,7 megapixel che richiama alla memoria quello montato sulla D850 anche se, in questo caso, la casa giapponese ha implementato un sofisticato sistema di rilevamento di fase su sensore; i 493 punti autofocus a rilevamento di fase coprono il 90% dell’area dell’immagine e lavorano in combinazione con un sistema AF a contrasto tradizionale. In pratica si tratta di una notevole scommessa tecnica, da parte di Nikon, con questo autofocus ibrido su full frame. Non è innovativo il sistema di riconoscimento del viso, mi aspetto un upgrade in tal senso nei prossimi sviluppi. Per quanto concerne il discorso tenuta ad alti ISO, pur essendo decisamente buona, c’è probabilmente di meglio; però se avessi voluto dei files più “puliti” dal rumore elettronico generato dagli scatti ad alti ISO non avrei acquistato la Z7 ma avrei aspettato l’uscita della sorellina minote Z6, sicuramente più “attrezzata” in tal senso grazie al sensore da 24,2 megapixel; questo aspetto non mi tocca più di tanto, a dire il vero: io ho la sensibilità “inchiodata” a 64 ISO e da lì rifuto in genere di muovermi, visto il genere di foto che prediligo.

    Sempre per la prima volta, una fotocamera Nikon è dotata di un sistema di stabilizzazione in camera anziché sugli obiettivi come accaduto fino ad ora con il sistema di stabilizzazione denominato VR: la Z7 è dotata di un sistema di stabilizzazione su 5 assi che consente di utilizzare i nuovi obiettivi Nikkor S senza che questi abbiano l’ingombro del sistema VR oppure di montare (grazie all’adattatore FTZ) gli obiettivi con attacco F; se questi sono stabilizzati a loro volta, le due stabilizzazioni coesistono e lavorano in sintonia; infine è anche possibile utilizzare gli obiettivi con attacco F non stabilizzati facendoli diventare, di fatto, obiettivi con il VR. Varie recensioni parlano di un guadagno in termini di stabilità di addirittura 5 stop; mi riservo di provare personalmente questa affermazione, ma le premesse sono indubbiamente interessanti.

    Ho parlato di obiettivi con attacco F da utilizzare con adattatore ed il motivo è presto detto: la mirrorless Nikon, dopo decenni di immutabile fedeltà all’attacco F, che ha consentito una longevità incredibile anche ad obiettivi prodotti negli anni ’60 del secolo scorso, ha adottato un nuovo innesto per gli obiettivi, appunto la montatura Z, che ha un diametro di 55 mm, ben 11 mm più larga rispetto alla montatura Nikon F e una distanza flangia – sensore di 16 mm; questa configurazione offre di fatto ai progettisti di obiettivi Nikon una nuova libertà costruttiva, scavalcando limiti fisici in precedenza insormontabili; inoltre la possibilità di montare l’adattatore FTZ consente una retro-compatibilità notevolissima con i vecchi obiettivi: poco meno di un centinaio di obiettivi attacco F sono perfettamente utilizzabili sia come autofocus che esposizione automatica ed oltre 350 obiettivi più datati possono essere utilizzati sacrificando l’autofocus ma mantenendo l’esposizione automatica, tutto ciò a garantire un bel po’ di sollievo ai possessori di ottiche Nikon, che possono valutare il passaggio al sistema mirrorless senza troppi patemi d’animo finanziari. Inutile dire che questo particolare ha notevolmente influito sulla mia decisione di acquistare la Z7, perché un conto è aggiungere (o sostituire) un corpo macchina all’attrezzatura ed un altro rifare ex-novo il parco ottiche.

     

    Discorso ergonomia: l’ho già detto, la prima impressione è di avere in mano una fotocamera, non la macchina fotografica di Ken e Barbie. Nikon ha creato una impugnatura con una bugna molto pronunciata che consente di avere una presa decisamente salda della fotocamera, comoda e che non stanca la mano anche dopo parecchio tempo di utilizzo; questo spazio ulteriore ha consentito inoltre di alloggiare nella fotocamera una batteria dello stesso tipo di quelle in uso sulle DSLR della serie D7xxx, D6xx, D7xx e D8xx: le batterie della Nikon Z7 sono denominate EN-EL15b e possono essere interscambiabili con le EN-EL15 e EN-EL15a in uso sulle reflex appena elencate; unica differenza: la EN-EL15b della Nikon Z7, al contrario delle altre batterie, è l’unica che può essere ricaricata direttamente in macchina attraverso l’apposita presa USB. Per la durata di questa batteria mi sento categoricamente di smentire quanto affermato in precedenza da recensioni della prima ora: con l’uso che faccio io della fotocamera, riesco ad avere quasi la stessa autonomia che ho con la D850. Il corpo di dimensioni decenti offre anche il vantaggio di poter ospitare i tasti fisici che si trovano normalmente su di un corpo reflex professionale o prosumer. Sul retro della Z7 ci sono praticamente tutti, anche se disposti in modo un po’ diverso. Unica “mancanza” a cui mi dovrò abituare riguarda il tasto AE che, in realtà, non manca realmente ma è stato assegnato al pulsante joystick che ha anche la funzione di posizionamento del punto di fuoco. Anteriormente ci sono due tasti personalizzabili, di fianco al bocchettone, comodi da utilizzare con la mano destra.

    Il sistema di visione mi sembra molto buono, soprattutto se confrontato con fotocamere mirrorless provate in precedenza; alcuni fotografi continueranno a privilegiare il mirino ottico delle reflex, ma Nikon ha decisamente fatto le cose per bene con questo EVF con risoluzione da 3,69 milioni di punti: è talmente nitido che non si nota alcuna granularità e ci si ricorda di avere a che fare con un mirino digitale solo se si sposta molto rapidamente la fotocamera e si può notare un leggero ritardo o un po’ di sfocatura. Questo lievissimo ritardo del mirino non è assolutamente un problema nella fotografia statica (tipo quella di paesaggio) mentre potrebbe essere visibile durante gli scatti in sequenza veloce: non si perde lo scatto ma occorrerà abituarsi. Molto utile e facilmente selezionabile il tasto che consente di escludere a scelta l’uso dell’EVF o del touchscreen o di renderli utilizzabili entrambi in alternanza.

    Anche il display posteriore, a tale proposito, è veramente buono: si tratta di uno schermo touchscreen da 2,1 milioni di pixel, estremamente nitido, inclinabile come già avviene nella D500 e nella D850, comodissimo per le riprese da bassa angolazione; permette anche di mettere a fuoco e scattare con un solo tocco e di modificare un elevato numero di impostazioni della fotocamera. Ovviamente, anche in questo caso, occorre abituarsi e fare attenzione a non toccarlo inavvertitamente per non rischiare di modificare in modo accidentale qualche impostazione o il punto AF e, se proprio non ci si abitua, è una funzione che si può disabilitare in qualsiasi momento.

    Per me che sono abituato ad usare il piccolo pannello riassuntivo delle impostazioni che si trova sulla parte superiore delle reflex, è stata una bella conferma trovarlo anche sulla Z7: è un pannello OLED con caratteri chiari su fondo scuro, che lo rende molto leggibile anche alle talpe come il sottoscritto.

    Discorso unica scheda di memoria XQD che ha fatto stracciare le vesti a parecchia gente e sputare sentenze ad altrettanti invidiosi: non sono un matrimonialista e quindi per me si tratta di un non-problema. Capisco che chi ci lavora con la fotocamera possa avere qualche dubbio, ma considerata la robustezza ed affidabilità del formato XQD, direi che si può essere abbastanza tranquilli. Poi, ripeto, rispetto le opinioni di tutti.

    In conclusione: non sono un esperto e non sono in grado di portare a termine test probanti sulle prestazioni della fotocamera, non ne ho la capacità ed i mezzi. Però avendo usato tutta le “famiglia” Nikon della serie D8xx (ultima la D850) e la D500, credo di poter dire che la Nikon Z7 è una macchina che lascia il segno, bella da vedere e comoda da usare, con un sensore, un sistema di visione ed una messa a fuoco veramente notevoli. Con, in più, la possibilità di poter continuare a fotografare con gli obiettivi con attacco F senza essere costretti a svenarsi in un cambio radicale di sistema e la “promessa” di poter utilizzare prossimamente obiettivi molto performanti, grazie al nuovo innesto Z. E con i suoi (molti) pregi e (pochi) difetti la Nikon Z7 è indubbiamente la fotocamera mirrorless che aspettavo per cominciare a prendere confidenza con questa tecnologia, potendo continuare a sfruttare appieno l’attrezzatura che già posseggo, in attesa di capire cosa voglio dare da grande.