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  • Nikon S3, classe e telemetro

    Nikon S3, classe e telemetro

    Il modello Nikon S3 Year 2000 Millennium (Y2K) è una riproduzione della fotocamera a telemetro Nikon S3, presentata nel marzo 1958. È stata prodotta in quantità limitata per commemorare l’anno 2000. L’S3 Y2K è stata prodotta il più possibile identica all’originale Nikon S3 ad eccezione di dettagli molto piccoli, per uniformarsi alle moderne pratiche operative della fotocamera, compresa la variazione dell’indicazione dell’esposizione da “20” a “24” e l’indicazione della sensibilità del film calibrata in ISO invece di ASA . Nel ripresentare la S3, Nikon fece le cose in grande stile: creò nuovamente stampi e matrici di produzione ed apportò altri miglioramenti, come ad esempio la manovella di riavvolgimento riprogettata e la copertura anteriore in alluminio anziché in plastica.

    Nikon lanciò la sua linea di prodotti a telemetro 35 mm con la Nikon I presentata nel 1948, che si è successivamente evoluta in M e S, e la serie a telemetro è stata considerata come linea di fotocamere principali fino alla uscita e alla diffusione delle fotocamere reflex a obiettivo singolo. La serie S è stata il precursore della Nikon F ed era molto apprezzata come macchina fotografica classica.

    Nikon S3 era un modello relativamente recente della serie S, dotato di un telemetro con il primo mirino 1: 1 a grandezza naturale al mondo per obiettivi con lunghezza focale di 35 mm. La Nikon nella S3 Y2K ha riprodotto con precisione non solo il mirino a grandezza naturale da 35 mm, ma anche il riduttore di regolazione della lunghezza focale disposto nella parte superiore destra del corpo, e il suono silenzioso e dell’otturatore, chiamato ‘sussurro’ a quei tempi.

    Nel 2000 Nikon decise di produrre nuovamente la S3 in edizione limitata, per essere venduta solo in Giappone: gli appassionati dovettero fare i salti mortali, all’epoca, per poter avere uno degli 8.000 set prodotti, set composti appunto dalla S3, da un nuovo obiettivo Nikkor-S 50mm f/4 ed una custodia in vera pelle.

    L’obiettivo standard Nikkor S 50 mm f / 1.4 era una riproduzione dell’obiettivo incorporato nella versione Olympic, noto come il tipo “serie successiva” interamente cromato. Era un obiettivo multistrato proprio come gli obiettivi Nikkor attualmente disponibili per garantire un più alto grado di riproducibilità del colore.

    La Nikon S3 utilizza l’innesto a baionetta tipo S. Questo tipo di attacco è compatibile con tutti gli obiettivi per macchine a telemetro Nikon, ma non è compatibile con l’attacco F, introdotto nel 1959 e tutt’ora in uso (cosa che personalmente adoro).

    Nel giugno 2002, la Nikon S3 Limited Edition Black è stata prodotta e commercializzata in una quantità limitata di 2.000 riprogettando il modello S3 Y2K con una finitura nera.

  • Il ponte di campagna

    Il ponte di campagna

    Le opere di bonifica hanno rappresentato nei decenni e rappresentano tutt’ora, un importantissimo processo di trasformazione del territorio italiano e di quello Padano in particolare. In diversi momenti storici, partendo dall’epoca Romana per arrivare fino al periodo fascista, sono stati pianificati ed attuati moltissimi interventi di regolamentazione delle acque per attivare un risanamento dei territori ed ottenere maggiori estensioni di terreni coltivabili. Tralasciando gli inevitabili riflessi sociali che queste gigantesche opere determinarono, sono tutt’ora evidenti i risultati tangibili che esse produssero: una rete di migliaia di chilometri di canali di svariate dimensioni e destinazioni, ferrovie, corti coloniche, strade e carraie, per non parlare degli impianti idrovori che si vedono un po’ ovunque.

    Proprio la molteplicità delle opere e come queste si sono gradualmente “integrate” con il territorio, costituiscono una ghiotta occasione fotografica: ci sono, come detto, le gigantesche e architettonicamente interessanti idrovore di sollevamento delle acque in prossimità del Po e dei sui affluenti principali; ci sono carraie che costeggiano i canali che sono diventate habitat di numerosissime specie animali e vegetali; ci sono gli argini, ci sono gli invasi (lanche) che consentono l’espansione relativamente tranquilla delle piene del Po, ci sono i pioppeti che sono ormai una costante nei territori ricchi d’acqua.

    E poi ci sono i piccoli canali di irrigazione, un gradino sopra nella gerarchia ai semplici fossi, nascosti nella campagna, lontani dalle strade di passaggio oppure vicinissimi ma occultati dalla vegetazione, che offrono scorci a volte impensati e sorprendenti, magari arricchiti da un ponticello ad arco in pietra, che sono per chi ama fotografare come il miele per gli orsi.

    Ne ho trovato uno in particolare che mi affascina e che è entrato di diritto negli appunti fotografici dei luoghi da visitare spesso, in diverse stagioni e in diverse condizioni atmosferiche. Intanto ho fatto i primi scatti. Mica facile rendergli giustizia ma, come al solito, cerco di ottenere il meglio che posso dalle mie scarse attitudini fotografiche.

     

     

  • Yashica FX3 Super 2000, l’inizio

    Yashica FX3 Super 2000, l’inizio

    La Yashica fu fondata in Giappone nel 1949 e, insieme a Nikon e Canon, è uno dei più antichi e prestigiosi nomi della fotografia del Sol Levante. In un primo tempo la produzione fu incentrata su apparecchi biottici e, nel 1959, iniziò anche la fabbricazione di reflex a lente singola. Nel 1973 mise in atto una collaborazione con la tedesca Contax per la creazione della reflex RTS, ottenendo in cambio il diritto di utilizzare i prestigiosi obiettivi Zeiss, grazie alla progettazione di una baionetta di innesto comune ad entrambe le marche. La produzione delle nuove reflex giapponesi con baionetta Contax/Yashica (brevemente C/Y) fu avviata nel 1975 con il modello FX-1 a cui seguirono altri modelli, fra i quali, nel 1979, la fotocamera entry level della serie, la FX 3. Come già detto altrove, occorre fare mente locale sul concetto di entry level dell’epoca: contrariamente a quanto accade ai nostri giorni, le macchine fotografiche base erano prive di alcuni automatismi ed accessori presenti sui modelli di fascia più elevata, ma le caratteristiche di affidabilità, qualità ed ergonomia erano le medesime. La Yashica FX-3 divenne ben presto un modello richiestissimo e la sua produzione si protrasse per circa 23 anni, mantenendo le sue peculiarità, se si escludono alcuni aggiornamenti minori, l’ultimo dei quali nel 1986 che produsse la versione Super 2000, che deve il suo nome al tempo di scatto minimo disponibile di 1/2000 rispetto al 1/1000 del modello originale e annovera l’aggiunta di un grip per facilitarne l’impugnatura.

    A mio giudizio (ma non solo mio, visto il successo ultra ventennale) è una reflex dall’aspetto piacevole, compatta (135x85x50 mm) e leggera (poco meno di 500 grammi il solo corpo). Decisamente robusta a livello meccanico, la FX 3 Super 2000 non lo è altrettanto come corpo, in cui viene utilizzata parecchia plastica, seppure di ottima qualità. Il dorso è incernierato al lato destro del corpo stesso e si apre tirando verso l’alto il pomellino di riavvolgimento del rullino. Decisamente semplice caricare la pellicola: si inserisce la linguetta del rullino nella fessura del rocchetto sulla destra, la si mette leggermente in tensione con la leva di carica e agendo successivamente sulla manovella di riavvolgimento e, dopo la chiusura del dorso, si scatta fino a raggiungere il numero 1 sul contascatti. Il mirino della FX-3 mostra il 92% dell’inquadratura ed è decisamente e piacevolmente spartano: al suo interno, infatti, ci sono solo tre led posti in verticale sulla destra che mostrano la sovraesposizione (un “+” rosso), la corretta esposizione (un pallino verde) e la sottoesposizione (un “–“ rosso). La messa a fuoco (manuale) avviene a mezzo di telemetro con immagine spezzata al centro e un anello di microprismi.  L’otturatore è completamente meccanico, un Copal Square a lamelle metalliche con tempi di scatto da 1 secondo a 1/2000 di secondo e posa B e funziona anche senza pile, che sono però presenti nel fondello della fotocamera e servono solo al funzionamento dell’esposimetro; originariamente si utilizzavano le SR44 (ossido d’argento) ma, essendo ormai introvabili o quasi, vanno benissimo due LR44 alcaline da 1,5V (o una CR2 al litio da 3V). L’esposimetro si attiva con una leggera pressione del pulsante di scatto (che presenta la filettatura per lo scatto flessibile) e la corretta esposizione si presenta, come detto, quando il solo led verde è acceso; se contemporaneamente si accende anche uno dei led rossi, significa che c’è una differenza di esposizione di ½ stop; la lettura è di tipo TTL  e la sensibilità ISO va da 25 a 3200. Sul frontale della FX 3 è presente la levetta che aziona l’autoscatto che ha la notevole prerogativa di pre-ribaltare lo specchio, garanzia di riduzione delle vibrazioni (prendere buona nota).

    L’obiettivo standard commercializzato con la FX 3 Super 2000 è lo Yashica ML 50 mm e massima apertura f/1,9. Per concludere: la FX 3 si dimostra veramente piacevole da usare, grazie alla sua leggerezza ed al suo bilanciamento e dopo pochi minuti si ha l’impressione di averla usata da sempre (sarà anche perché per me è stato veramente così, essendo stata la mia prima fotocamera), pur con tutti i suoi limiti, come la poca rapidità del sistema a collimazione di led o la ghiera dei tempi un po’ dura da azionare con un dito solo, per non parlare dell’otturatore dal suono piacevole ma decisamente “importante” e quindi non proprio ideale per la foto di strada, se si vuole passare inosservati. Per contro, la possibilità di poter montare gli ottimi obiettivi Carl Zeiss T* è un plus non indifferente e la mancanza di automatismi “costringe” a concentrarsi su quello che più conta: il soggetto della fotografia. Allegati a questo testo, ci sono alcuni scatti.

  • Nikkormat, “la Nikon F dei poveri”

    Nikkormat, “la Nikon F dei poveri”

    Negli anni ‘60 iniziò la fortuna delle fotocamere reflex a discapito della diffusione di quelle a telemetro. Una spinta non indifferente la diede l’uscita sul mercato della Nikon F nel 1959, che segnò una vera e propria pietra miliare nel mondo della fotografia. La F divenne ben presto l’ammiraglia di casa Nikon, anche in virtù delle sue caratteristiche professionali. E lo restò anche per lungo tempo, considerato che fu prodotta in circa un milione di esemplari. Unico neo (comune anche alle DSLR professionali odierne) era il costo elevato, fatto che convinse i vertici industriali della casa giapponese a commercializzare un prodotto che fosse più alla portata di chi non desiderava o non poteva svenarsi per una fotocamera. Venne prodotta allora la Nikkorex F che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto costituire il secondo corpo per i professionisti e una macchina appetibile per tutti. In realtà questa serie di fotocamere non ottenne il successo sperato e la loro produzione venne abbandonata all’inizio degli anni ‘70 in favore della serie Nikkormat che, di fatto, ottenne nelle sue varie versioni un successo non indifferente.

    La prima Nikkormat ad essere presentata fu la FT (sul mercato giapponese comparve con il nome di Nikomat); si trattava di una fotocamera con un corpo decisamente robusto, disponibile sia nella versione nera che cromata, fu prodotta nel corso del biennio 1965-1967 ed offriva prestazioni decisamente interessanti: tempi di scatto da 1 secondo ad 1/1000 di secondo, posa B, autoscatto, esposimetro TTL, possibilità di bloccare lo specchio, pulsante per controllare la profondità di campo. Nel 1967 iniziò la produzione della Nikkormat FTn, versione evoluta della FT, che aggiungeva, fra le altre cose, la scala dei tempi visibile nel mirino e la lettura esposimetrica a prevalenza centrale (semispot); la FTn fu prodotta fino al 1975, anno in cui fu presentata la FT2 con ulteriori miglioramenti, inclusa l’aggiunta della slitta portaflash.

    Giova ricordare che fino al 1977 le lenti Nikon non effettuavano automaticamente l’accoppiamento con l’esposimetro e quindi era necessario “istruire” il corpo macchina relativamente alla apertura massima disponibile sull’obiettivo che si stava montando. Per questo motivo sugli obiettivi era presente una piccola “V” metallica e quando si innestava l’ottica sulla macchina fotografica era necessario far entrare il piccolo perno presente sul bocchettone della stessa nella scanalatura della linguetta dell’obiettivo; era poi necessario ruotare la ghiera dei diaframmi prima in direzione della massima chiusura disponibile e poi verso quella minima. Questa procedura un poco complicata fu sostituita nel 1977 dal sistema AI (Automatic Indexing) che permise a Nikon di togliere il perno dai corpi delle fotocamere e di produrre gli obiettivi senza la caratteristica linguetta. Fu proprio nel 1977 che apparve l’ultima delle Nikkormat, la FT3, che poteva beneficiare di questa evoluzione.

    Come detto, la serie Nikkormat fu presentata anche per offrire al pubblico un prodotto più economico rispetto alle macchine professionali della serie F. A causa di ciò la Nikkormat venne spesso definita come “the poor man’s Nikon F” ovvero “la Nikon F dei poveri”. Niente di più sbagliato: le Nikkormat hanno come caratteristica principale una robustezza notevole, tanto è vero che a distanza di anni si trovano ancora in circolazione modelli perfettamente funzionanti e intatti come la FT2 che ho trovato io e mi risulta che all’epoca il distributore italiano offrisse per queste fotocamere addirittura la garanzia a vita! Dovrebbero essere macchine fotografiche entry-level, d’accordo, ma stiamo parlando di una macchina entry-level di più di 40 anni fa e la cosa si nota quando la maneggiamo: il corpo macchina è interamente in metallo, il mirino è decisamente luminoso, l’otturatore Copal S sul piano focale che arriva ad 1/1000 è più che sufficiente nella maggior parte delle situazioni, ha la possibilità di verificare attraverso l’apposito pulsante la effettiva profondità di campo, può scattare doppie esposizioni ed ha il blocco dello specchio. Tutte queste caratteristiche insieme sono decisamente da fotocamera di fascia medio-alta. Un vantaggio non indifferente è dato poi dalla non indispensabilità dell’alimentazione: la batteria c’è ma serve solo per il funzionamento dell’esposimetro, la macchina può scattare sempre e comunque. Nulla a che vedere con la bramosia energetica delle moderne macchine fotografiche, mirrorless in testa.

     

  • Nikon F3

    Nikon F3

    Era settembre del 1971 quando Nikon presentò la F2; questo modello di fotocamera fu subito molto apprezzato ma non mancarono anche le critiche, soprattutto da parte di chi lo considerava un modello “conservativo” che migliorava solo alcune caratteristiche del precedente modello F. Inoltre, come detto, era dal ’71 che Nikon non proponeva una nuova fotocamera professionale. Tenendo conto di queste osservazioni, la sezione sviluppo di Nikon decise di studiare un nuovo modello di macchina fotografica che introducesse dei miglioramenti significativi e così venne ideata la Nikon F3. Nel progetto vennero individuati due punti fondamentali da studiare: l’esposizione automatica e la capacità di gestire accuratamente i tempi lunghi di esposizione; fino ad allora non vi era state richieste di introdurre la funzione di esposizione automatica ma, nonostante ciò, i tecnici della Nikon Corporation (allora Nippon Kogaku K. K.) decisero di integrare la funzione AE con la funzione dell’otturatore a controllo elettronico. Erano consapevoli che, all’inizio, questa funzione sarebbe stata accolta con freddezza ma erano comunque convinti che in futuro essa sarebbe diventata una caratteristica importante, anche sulle fotocamere professionali. Già nel progetto della F2, seppure con modalità differenti, si era cercato di introdurre sia la funzione di esposizione automatica che l’utilizzo dei tempi lunghi e così queste due idee furono riprese nel progetto della F3. Nel 1973, completato il progetto base, iniziò l’effettivo sviluppo della Nikon F3: fu mantenuto il mirino intercambiabile già utilizzato sulla F2; furono adottate nuove tecnologie come il controllo elettronico del piano focale dell’otturatore; così come con la Nikon F2 furono incorporati nel mirino Photomic il TTL ed il circuito AE; venne sviluppano il sistema elettromagnetico di scatto e così via. Insomma, molte problematiche erano state risolte ed era pronta una Nikon F3 Photomic AE, solida, ben concepita, degna di succedere alla fortunatissima F2, ma… non fu mai messa in produzione! Vennero riscontrati problemi con la misurazione TTL che falliva con alcuni tipi di mirini, quali il Waist-level finder e l’Action finder ed i tecnici Nikon non erano in grado di risolvere il problema. Fu deciso allora di orientarsi verso una nuova tecnologia: la misurazione TTL non dal mirino ma dal corpo macchina. Questa soluzione era già stata studiata in passato, ma gli effetti collaterali ( oscuramento del mirino, zona d’ombra, ecc.) non ne avevano permesso la realizzazione. Occorreva una nuova soluzione e si pensò allo specchio pin-hole. Dopo anni di studi i tecnici giapponesi avevano messo a punto uno specchio con dei piccoli buchi che non disturbavano la riflessione; la luce che passava attraverso questi piccoli fori veniva deviata da uno specchio inferiore verso il fondo del mirror-box e da lì, attraverso una lente, concentrata sul sensore TTL. L’introduzione di questo sistema di misurazione TTL pin-hole permise la riduzione delle dimensioni del mirino, un alleggerimento globale e quindi una maggiore compattezza rispetto alla precedente Nikon F2 con conseguente… complicarsi del progetto stesso, che fu interamente rivisto e ripartì con decisione nel 1976. Nel frattempo erano state studiate, indipendentemente dal progetto F3, nuove tecnologie (controllo elettromagnetico dell’otturatore, display LCD, eccetera) e così il capo progetto F3 fu costretto a prendere una difficile decisione: ricominciare tutto da capo per includere queste nuove tecnologie. A spingere verso questa decisione fu anche l’arrivo presso la Nikon di un designer di fama come Giorgetto Giugiaro che si adoperò per dare alla F3 uno stile “internazionale”, appetibile in tutti i mercati mondiali. Giugiaro introdusse l’holding grip frontale, l’integrazione del design del blocco motore con il corpo della fotocamera e altre soluzioni stilistiche notevoli. Alla fine del 1977 il progetto arrivò all’ultima revisione, quella definitiva e, finalmente, nel 1980 la Nikon F3 venne messa in commercio, ottenendo un immediato riscontro positivo e divenne estremamente popolare, tanto è vero che, 18 anni dopo la sua uscita, essa era ancora presente nel listino Nikon. Anche se, è bene dirlo, non mancarono i soliti incontentabili che contestarono le dimensioni troppo ridotte della F3 rispetto alla F2, e paventarono fragilità e inaffidabilità della nuova uscita; inoltre, il funzionamento dell’otturatore elettronico condizionato dalla presenza di una batteria, fece storcere il naso ai professionisti, che temevano di rimanere in panne una volta esaurita, non ritenendo sufficiente il comunque presente tempo di scatto meccanico. Anche l’automatismo a priorità di diaframmi diede origine a malumori, ma credo che tutte queste rimostranze fossero giustificate da abitudini radicate e poca lungimiranza.

    Riassumendo le sue caratteristiche principali sono: esposizione automatica a priorità di diaframmi, visualizzazione dei dati nel mirino a mezzo di LCD illuminabile, sistema di misurazione con lettura semi-spot a prevalenza centrale (80/20), tempo meccanico di 1/60 di secondo, blocco della memoria di esposizione, otturatore del mirino, autoscatto con spia di progressione a LED, meccanismo di blocco dello specchio, mirino con visione del 100%, scala di compensazione dell’esposizione, leva per esposizioni multiple, eccetera. L’unica differenza con il modello F3 HP è il mirino: infatti quest’ultima (quella che ho avuto la fortuna di trovare io) monta un pentaprisma High Eyepoint dotato di un oculare maggiorato che consente di vedere inquadratura e dati esposimetrici anche tenendo l’occhio ad una distanza di 25 mm, funzione decisamente utile per chi come me deve portare gli occhiali.

    Le prime impressioni d’uso sono positive: la macchina è piccola e leggera, soprattutto se la si confronta con una full frame odierna ma, malgrado ciò, restituisce una sensazione (giustificatissima) di solidità e robustezza. Forse chi è abituato con i corpi delle moderne fotocamere, sia amatoriali che pro, rimarrà un poco spiazzato dalla poca profondità del grip laterale introdotto da Giugiaro, ma già il fatto che precedenti modelli addirittura non ne erano provvisti, risultando assolutamente piatti, è un notevole passo in avanti se si considera l’epoca di uscita della F3. Dal punto di vista puramente estetico, forse è più piacevole il modello F3 con pentaprisma normale, perché il pentaprisma imponente della F3 HP è abbastanza “importante”, ma si tratta di particolari. Il mirino è luminoso e può essere facilmente sostituito con uno di proprio gradimento/necessità: esistono ben cinque pentaprismi differenti, tre oculari e una ventina di schermi di messa a fuoco; di questi ultimi ho acquistato il tipo L che ha un telemetro graduato ad immagine spezzata angolato di 45°, utile soprattutto per la messa a fuoco delle linee orizzontali (qualcuno ha detto “paesaggio”?). Il pulsante di scatto non è particolarmente dolce, e serve per attivare l’otturatore che opera su due tendine al titanio che scorrono orizzontalmente; da segnalare un secondo pulsante di scatto meccanico a 1/60 di secondo, utilizzabile in emergenza di alimentazione delle batterie (due pile a bottone da 1,5V all’ossido di argento). Ho anche ritrovato sulla ghiera delle pose, una funzione dimenticata: la posa T, che è una sorta di posa B per lunghe esposizioni ma funziona senza utilizzare lo scatto flessibile (il Nikon AR-3): si preme il pulsante di scatto e, ad esposizione terminata, si gira la ghiera dei tempi su una posizione diversa da T, pratica un pochino macchinosa e, soprattutto, pericolosa per il mosso. L’esposimetro devo ancora valutarlo del tutto: ho scattato un solo rullino a colori da 36 pose, esponendo alcune foto con la valutazione dell’esposimetro integrato ed altre con l’ausilio di un esposimetro esterno. Sto ansiosamente aspettando i negativi sviluppati (vecchia abitudine dal sapore ineguagliabile) per vedere cosa ho combinato.

    Un’ultima cosa: perché mi sono preso la briga di scrivere questo? Perchè, per come la vedo io, stiamo parlando di magia. La magia di una macchina fotografica messa in commercio trentasette (!) anni fa ma che ha caratteristiche che troviamo ancora nelle macchine moderne, che permette di scattare comunque belle foto e che ha un fascino incredibile, raramente riprodotto nelle fotocamere presentate negli anni successivi.

    I cenni storici sono liberamente tratti ed adattati dal sito ufficiale Nikon, sezione History, Camera Chronicle.

     

  • Val de Morins

    Val de Morins

     

    Capita che fai un giro in una valle laterale dell’Alta Badia, un po’ nascosta forse, e di colpo ti ritrovi immerso in una atmosfera che ti ricorda il Midwest statunitense, con le baruffe, anche a base di fucilate, fra i clan familiari che abitano quelle zone e…

    D’accordo, ho letto troppo e visto altrettanti troppi film.

    In realtà la valle del Rio Seres è nota come Valle dei Mulini, Val de Morins, per la presenza lungo il suo corso di numerose macchine idrauliche. Nel tratto tra i due centri di Seres e Miscì, posti rispettivamente sulla sinistra e sulla destra del torrente, sono concentrati otto mulini ad acqua, due dei quali dotati di una doppia ruota, ed una teleferica ad acqua. Come spesso accade, si rimane a bocca aperta al pensiero di quanta ingegnosità e di quanta fatica sia occorsa all’uomo per costruire e far funzionare queste strutture, in un ambiente non agevole e con mezzi limitati. E se non ci si pensa, pazienza: basta la bellezza del luogo e l’armonia con cui queste teoricamente invasive costruzioni si integrano con esso a stupire. Io, poi, sono fatto alla rovescia, non badateci: mi emoziona molto di più vedere una baracca in pietra e legno che serviva per dar da mangiare alle persone piuttosto che un anfiteatro dove le persone ci lasciavano le penne. Purtroppo queste splendide opere non sono più utilizzate, se non periodicamente per scopo dimostrativo in favore dei turisti. Mi è stato spiegato che da queste parti non si coltiva più il grano ed i mulini sarebbero “disoccupati”.

    Prendo la spiegazione per buona ma mi rattristo ugualmente.

     

  • Il pioppeto

    Il pioppeto

    Il pioppeto – William Cowper

     

    Hanno abbattuto i pioppi, addio all’ombra

    e al mormorio del fresco colonnato,

    il vento piu’ non gioca ne’ canta tra le foglie,

    la loro immagine piu’ l’Ouse non riceve.

    Dodici anni fa scoprii un giorno

    l’amato boschetto e la riva dei pioppi,

    e ora nell’erba sono affondati

    e sedile mi fa chi ombra mi diede.

    Il merlo fuggito ad altro riparo,

    tra noccioli ha trovato rifugio alla calura,

    più non risuona la sua dolce voce

    sulla scena che tanto mi aveva incantato.

    Brevi scompaiono i miei anni,

    presto coi pioppi dovro’ giacere,

    una zolla sul petto, una pietra sul capo,

    prima che un bosco sul posto rinasca.

    La vista m’invita, piu’ d’ogni altra cosa,

    a meditare sugli effimeri piaceri umani:

    la vita e’ sogno, ma il piacere si consuma

    più rapido del respiro di un uomo.

     

    In memoria dell’amico Mauro

  • Valigetta rigida MAX 505

    Valigetta rigida MAX 505

    L’esigenza di avere a disposizione un contenitore pratico, robusto e possibilmente configurabile per conservare in casa l’attrezzatura fotografica e che fosse, al contempo, facilmente trasportabile in auto in caso di uscita d’emergenza (fotografica) mi ha spinto a provare diverse soluzioni, alla ricerca di quella più consona alle mie esigenze. Ho provato con gli zaini fotografici, che si sono rivelati molto buoni a livello di protezione, praticità e, ovviamente, prontezza all’uso ma che hanno il “difetto” di avere spallacci e cintura vita e, quindi, di occupare molto più spazio della loro reale capacità. Ho provato anche una sorta di contenitori in tessuto, imbottiti e con separatori configurabili, ma senza spallacci, cinture o cinghie varie: ottimi per il loro ingombro reale nel mobile di conservazione, un pochino “debolucci” per quanto riguarda la resistenza agli urti e, ovviamente, assolutamente inadatti al trasporto, se non abbinati ad uno zaino che li contenesse, scopo per il quale, per altro, erano stati creati.

    Ultimamente sto provando (l’ho acquistata, malelingue, non sono così fortunato da poter condurre test sponsorizzati) una valigetta rigida con imbottitura in spugna sagomabile, il modello MAX 505 S della RG Cases.

    Viene venduta in diversi modelli, per dimensioni e caratteristiche. Quella che sto utilizzando io ha il corpo in polipropilene copolimero con pareti spesse per garantire una buona resistenza agli urti, con quattro chiusure e perni in nylon, manico in materiale abbastanza morbido, guarnizione ermetica e persino la valvola automatica di pressurizzazione. Separatamente si possono acquistare le spugne precubettate (quella sul coperchio è invece bugnata) che sono facilmente sagomabili per sottrazione attorno a ciò che desideriamo proteggere, cioè asportando un cubetto di spugna alla volta fino a che abbiamo ottenuto una cavità consona alla sagoma dell’oggetto da contenere; oppure, sempre a parte, è acquistabile il kit pronto per l’attrezzatura fotografica, con pareti amovibili. Fra gli accessori disponibili ci sono anche una tracolla e i lucchetti a combinazione e la valigetta è già predisposta per la loro eventuale applicazione. Io ho approfittato di una offerta on-line e sono riuscito ad acquistare valigia e spugne in un sol colpo al prezzo della sola valigia e senza spese di spedizione (provate a dire un negozio web a caso…), ma ho intenzione di provare anche il kit fotografico.

    Come dicevo, queste valigette sono prodotte in diversi modelli e misure; quella che ho acquistato per me misura esternamente 55,5×21,1×42,8 cm ed è di colore arancio decisamente vivo, al limite dell’antiinfortunistica, ma mi piace; c’è anche in versione nera. Internamente le misure sono 50x35x19,4 cm. Completa di spugna pesa circa 4,3 kg, non una piuma effettivamente, ma il dilemma era sicurezza o trasportabilità: a me interessava la prima.

    Le prime impressioni d’uso sono decisamente positive: la valigetta è effettivamente robusta, ha il pregio di essere ermetica (non l’ho buttata in uno stagno, ma con la pioggia regge alla grande), è impilabile e se fate le cose con calma al momento di sagomare la spugna, al suo interno gli oggetti sono praticamente immobili ed ammortizzati, opzione che, quando si parla di materiale elettronico, fastidio non dà.

    Lati negativi? Ho detto poco fa che ”…se fate le cose con calma al momento di sagomare la spugna,…” perché, effettivamente, occorre prestare attenzione nello staccare i cubetti di spugna, prima di tutto per non creare una forma più larga dell’oggetto da contenere e soprattutto perché, una volta staccati, i cubetti non sono riattaccabili se non con colla e relative problematiche. Inoltre, ma questo ve lo potrò dire più avanti, devo verificare se la spugna, con il passare del tempo, tenda a “sbriciolare” ed a produrre quella polverina che, corpi tropicalizzati o no, a me personalmente infastidirebbe molto.