Tag: Bassa

  • Sulla strada della Sabbiosa

    E anche questo rientra nel novero degli esperimenti.

    Nuovo arrivo in borsa (GoPro 9 Black) e subito qualche ripresa dalla bici, pedalando sull’argine maestro che segue il percorso del Po nella mia zona. Al rientro un po’ di lavoro di post-produzione con Apple iMovie e via andare.

    Niente di esaltante ed anni luce di distanza qualitativa dalle produzioni, non dico professionali, ma anche da quelle degli innumerevoli bimbiminc… ehm, ragazzini, che girano con un cellulare in mano.  Ma, ovviamente, si  cerca sempre di imparare e di mettere mano a mezzi espressivi nuovi.

    Il titolo? Nulla di misterioso ma solo un richiamo ad una bella manifestazione organizzata dalla Pro Loco di Viadana che consiste, appunto, in una corsa non competitiva in bicicletta per le strade delle campagne e per i centri storici dei paesi limitrofi.

    p.s. Quando nel testo parlo di “bimbim…” sto assolutamente scherzando. Io accetto e rido (orgoglioso) quando mi danno del boomer e spero che facciano altrettanto i ragazzini di cui sopra. Anche perché pagherei per avere metà della loro freschezza espressiva.

    Bensound.com/royalty-free-music
    License code: CACAIJUXKAHVJYD3

  • Le strade di Viadana (e dintorni)

    Le strade di Viadana (e dintorni)

    Un giro virtuale per le strade del viadanese, immortalato su pellicola, per godersi ogni attimo con calma.

    Quando sembra che non ci sia più tempo, la tentazione è quella di mettersi a correre, fare presto, fare il più cose possibile.

    Ed invece no. Bisogna fermarsi. Assaporare le cose che conosci e che ami, come la tua Bassa, le campagne che vedi da tanto tempo, le strade che hai percorso tante volte.

    Metti da parte le macchine digitali, quelle perfette che difficilmente sbagliano un colpo, che ti fanno vedere la foto prima ancora di averla immaginata. E tiri fuori le vecchie glorie che come sensore hanno un rullino e che per trentasei volte sarà quello e solo quello, senza ripensamenti. E scatti piano, prendendoti il tempo. Anche quello che forse non c’è.

    E non sai quanto tempo ci sarà ancora. Ma hai la confortante speranza che i tuoi passi ed il clic della tua macchina fotografica risuoneranno ancora un po’ quando sarà tornato il silenzio in queste strade amiche.

     

    Via Argine Oglio

     

    Via Volta

     

    Via Valle

     

    Via Ottoponti

     

    Via Manfrassina

     

    Via Valle

     

    Via Podiola

     

    Via Al Ponte

     

    Via Bordenotte

     

    Via Kennedy

     

    Via Val D’Enza

     

    Via Pisacane

     

    Via Cadorna

     

    Via Val D’Enza

     

    Via Case Sparse Casalbellotto

     

    Via Podiola

     

    Via Al Ponte

     

  • Il “Campo Giochi” all’infrarosso, lo scatto passo dopo passo

    Il “Campo Giochi” all’infrarosso, lo scatto passo dopo passo

    La fotografia digitale all’infrarosso è oramai alla portata di tutti: i costi decisamente contenuti per l’attrezzatura e i tutorial pubblicati su internet da fotografi specializzati, aiutano ad affrontare questa tecnica fotografica con relativamente pochi patemi d’animo. Intendiamoci: alcuni “segreti” vengono comunque gelosamente custoditi, ma i passi base per ottenere e post-produrre dignitosamente una foto all’infrarosso sono di pubblico dominio.

    Io non sono affatto uno specialista di questa tecnica, anzi; però ho deciso ugualmente di cimentarmi perché mi offre la possibilità di fotografare ciò che preferisco  – paesaggi – in momenti del giorno in cui gli altri fotografi rientrano nelle bare, rifuggendo la dura ed impietosa luce della metà giornata quasi fossero vampiri. Ovviamente scherzo, su vampiri e bare, ma non sul discorso illuminazione: è ormai noto che la fotografia all’infrarosso ha bisogno di una elevata illuminazione e che, proprio per le sue caratteristiche, i risultati migliori si ottengono scattando nelle ore centrali della giornata e non all’alba o al tramonto come nelle foto di paesaggio “tradizionali”. In pratica è una tecnica fotografica che permette ai patiti di non fermarsi mai e scattare anche nei tempi normalmente considerati “morti” a causa della luce sfavorevole.

    In questa sede non scriverò di post produzione: esistono svariate scuole di pensiero, tutte validissime, ma sarebbe necessario prima di tutto conoscerne i contenuti (tutti i contenuti e non solo spizzichi e bocconi e, se qualcuno si sente tirato per le orecchie, beh la mia intenzione è proprio quella) e poi parlarne diffusamente. Magari ci ritorneremo. Qui desidero semplicemente raccontarvi come effettuo lo scatto, con quale attrezzatura e il procedimento.

    Prima di tutto la fotocamera: ho acquistato (nuova perché sono decisamente pignolo, con sconfinamenti nella maniacalità) una Nikon D90, ad un prezzo molto conveniente ma, volendo, si possono trovare ottime macchine usate a prezzi ancora migliori, vista la non più verde età del modello in questione. L’ho fatta successivamente  modificare per adattarla alla fotografia all’infrarosso presso un laboratorio di fiducia. Ricordate sempre che queste modifiche sono praticamente irreversibili; quindi ricorrete ad esse solo se siete convinti di quello che state facendo, perché dopo la stessa fotocamera non potrà più essere utilizzata per scattare foto “normali”.  Comunque, dicevo, procedo in questo modo:

    1. scelgo il luogo dove scattare le foto, preferibilmente in posti in cui sia presente una discreta vegetazione (alberi, cespugli, prati, anche coltivazioni) e, ancor meglio, un corso o uno specchio d’acqua; come noto, nelle fotografie IR, la vegetazione apparirà molto chiara, quasi bianca mentre invece cielo ed acqua verranno resi molto scuri, creando un contrasto di notevole intensità; da ricordare che, proprio grazie alle sue peculiarità, questa tecnica eliminia notevolmente la foschia atmosferica, quindi niente paura se, al momento di uscire per fotografare, l’atmosfera si presenta di quell’azzurrognolo fosco che fa passare la voglia di scattare foto;
    2. scelgo, come detto, una giornata soleggiata; se poi sono presenti in cielo nuvole e nuvolette, per me è il massimo; il sole cerco di averlo lateralmente, per motivi che trovo offensivo spiegarvi;
    3. piazzo il treppiede perchè, oltre a garantire stabilità alla fotocamera ed evitare il mosso, mi consente di mettere a fuoco con discreta precisione e prendendomi tutto il tempo che mi serve per inquadratura e scatto;
    4. come obiettivo preferisco usare un grandangolare, per enfatizzare soprattutto il cielo, visto che nella foto ad infrarossi questo appare, come detto, scuro ed il contrasto con le nuvole dona drammaticità ed un effetto che amo tantissimo; più precisamente mi affido allo zoom Nikon 10-24 mm che è nel formato DX adatto alla D90 (corrisponderebbe, grosso modo, alle focali 15 – 36 mm sul formato 35 mm).
    5. utilizzo sempre il telecomando (nel mio caso un Nikon ML-L3 ad infrarossi) per la solita questione di evitare il mosso;
    6. compongo l’inquadratura e metto a fuoco manualmente utilizzando il live view sullo schermo LCD della fotocamera e tengo contemporaneamente oscurato il mirino con l’accessorio apposito (o anche con un pezzo di nastro adesivo scuro) per evitare infiltrazioni indesiderate di luce; considero questo accorgimento di utilizzare il live view abbastanza importante, perché ho notato che, dopo la modifica alla fotocamera, la precisione dell’autofocus lascia un pochino a desiderare. Occorre tenere presente che, vista la elevata luminosità presente in quelle ore della giornata, non è proprio semplicissimo comporre e focheggiare utilizzando lo schermo della fotocamera, a causa dei riflessi; ecco perché dicevo prima che cerco di utilizzare sempre il treppiede: mi consente di avere entrambe le mani libere ed usarle per cercare di schermare dalla luce l’LCD o, meglio ancora, di usare un accessorio molto valido che si comporta come un mirino da applicare sullo schermo stesso della macchina fotografica, lo Hoodman Loupe (ne esistono differenti versioni e modelli); prossimamente voglio esagerare e provare ad utilizzare un piccolo schermo LCD da 7 pollici, opportunamente schermato, che si collega alla fotocamera con cavo USB: vi saprò dire;
    7. generalmente uso un diaframma generoso, per cercare di avere una buona leggibilità su tutto il fotogramma, solitamente f/11;
    8. eseguo un primo scatto e, se in visualizzazione noto che le aree della vegetazione sono troppo chiare, al limite del “bruciato”, rieseguo lo scatto compensando l’esposizione di 1 o anche 2 stop; poi, sullo schermo del computer, mi renderò meglio conto di quale fotogramma sia meglio utilizzare ma, almeno, ho materiale su cui posso lavorare.

    Tutto qui, nulla di trascendentale. Solo, come sempre, qualche accorgimento tecnico, molta attenzione e tanta calma, non stiamo fotografando una gazzella da immortalare al volo altrimenti fugge.

    Ah, e perché il “Campo Giochi” del titolo? E’ presto detto: è uno scherzo fra amici pescatori; si tratta di un una sezione di canale di irrigazione e bonifica della Bassa padana il cui vero nome è Corte Pizzo, decisamente accogliente, in cui ci troviamo spesso con la scusa di una pescata in compagnia (pesce tassativamente rilasciato in buona salute alla fine, ci tengo a dirlo) ma con il vero fine di una grigliata all’aperto, con tutto ciò che ne consegue. E poiché in autunno ed inverno il canale viene prosciugato quasi completamente e la vegetazione non è più ovviamente rigogliosa, l’unico periodo buono per fotografarlo è nella stagione calda, caldissima.

  • Pellicola Rollei Infrared

    Pellicola Rollei Infrared

    Tempo di esperimenti (e quando mai finiscono, gli esperimenti?) con una pellicola particolare, la Rollei Infrared 400 iso 35 mm, pellicola pancromatica in bianco e nero con sensibilità all’infrarosso fino a 820 nanometri (brevemente nm) se si utilizza l’apposito filtro.

    Per me si tratta di una prima assoluta in quanto, fino ad ora, ho scattato fotografie all’infrarosso utilizzando una macchina digitale Nikon D90 privata del filtro deputato, appunto, al blocco delle radiazioni infrarosse ed ho voluto provare a fare qualcosa di diverso, con un metodo di scatto che non richiede la modifica praticamente irreversibile di una fotocamera digitale ma unicamente l’utilizzo di un rullino per infrarosso su  una macchina analogica normale (io ho usato una Nikon F100) e dei filtri dedicati, il filtro rosso R60 oppure il filtro rosso scuro R72, nella versione circolare da avvitare sull’obiettivo, nel mio caso un Nikkor AF-S 20 mm f/1.8 G ED.

    Tornando alla pellicola, questa, al contrario di altre pellicole specifiche per infrarosso, può essere caricata sulla fotocamera in condizioni di semioscurità, senza pregiudicare l’esposizione dei primi fotogrammi del rullino (la Kodak, ammesso di riuscire a trovarla ancora, richiede di essere caricata in assoluta oscurità). Anche lo scarico è sufficiente che avvenga in condizioni di luce attenuata, permettendo comunque di vedere ciò che si sta facendo.

    La Rollei Infrared può essere utilizzata anche come una normale pellicola in bianco e nero e restituisce delle foto con grana molto fine e ottimi dettagli in luci ed ombre, ma il suo indirizzo ideale è l’infrarosso, ottenibile applicando il filtro rosso scuro R72, che è decisamente opaco (approssimativamente si perdono 4 o 5 stop a filtro montato) e che obbliga a lunghe esposizioni e di conseguenza rende indispensabile l’utilizzo di un treppiede e dello scatto remoto. Praticamente, in pieno sole estivo e con un filtro Hoya R72 montato, ho visto che l’esposizione di 1 secondo è un buon punto di partenza ma consiglio caldamente di scattare in manuale e provare ad effettuare almeno un altro paio di scatti con tempi raddoppiati progressivamente; si dovrà scartare qualcosa nelle pose risultanti, ma ci sono ottime probabilità di portare a casa almeno uno scatto correttamente esposto.

    Per ottenere questa serie di foto ho seguito i seguenti passi, se può interessare:

    • ho messo la macchina sul treppiede con lo scatto remoto installato ma senza montare il filtro R72
    • ho scelto l’inquadratura che mi interessava ed ho messo a fuoco fidandomi dell’AF della macchina
    • ho messo la fotocamera in modo di esposizione manuale e fuoco manuale per non modificare quello preventivamente fissato
    • ho installato il filtro R72 ed accettato la misurazione dell’esposizione che mi suggeriva la macchina
    • ho effettuato il primo scatto con l’ausilio dello scatto remoto (sulla Nikon F100 non c’è la possibilità di scattare alzando preventivamente lo specchio ma, se vi è possibile, utilizzate assolutamente questa opzione)
    • ho successivamente effettuato altri due scatti, raddoppiando il tempo di scatto iniziale suggerito di 1 secondo.

    Se i soggetti delle foto vi dicono qualcosa, avete ragione, non ho avuto molta fantasia: sono tornato sui luoghi di “delitti” precedenti scattati in infrarosso con la digitale ma trattandosi, come detto, di esperimenti, non sono andato troppo per il sottile con l’originalità.

    Un ultima raccomandazione: sviluppate (se siete bravissimi) o fate sviluppare la pellicola esposta il più rapidamente possibile.

     

  • Il ponte di campagna

    Il ponte di campagna

    Le opere di bonifica hanno rappresentato nei decenni e rappresentano tutt’ora, un importantissimo processo di trasformazione del territorio italiano e di quello Padano in particolare. In diversi momenti storici, partendo dall’epoca Romana per arrivare fino al periodo fascista, sono stati pianificati ed attuati moltissimi interventi di regolamentazione delle acque per attivare un risanamento dei territori ed ottenere maggiori estensioni di terreni coltivabili. Tralasciando gli inevitabili riflessi sociali che queste gigantesche opere determinarono, sono tutt’ora evidenti i risultati tangibili che esse produssero: una rete di migliaia di chilometri di canali di svariate dimensioni e destinazioni, ferrovie, corti coloniche, strade e carraie, per non parlare degli impianti idrovori che si vedono un po’ ovunque.

    Proprio la molteplicità delle opere e come queste si sono gradualmente “integrate” con il territorio, costituiscono una ghiotta occasione fotografica: ci sono, come detto, le gigantesche e architettonicamente interessanti idrovore di sollevamento delle acque in prossimità del Po e dei sui affluenti principali; ci sono carraie che costeggiano i canali che sono diventate habitat di numerosissime specie animali e vegetali; ci sono gli argini, ci sono gli invasi (lanche) che consentono l’espansione relativamente tranquilla delle piene del Po, ci sono i pioppeti che sono ormai una costante nei territori ricchi d’acqua.

    E poi ci sono i piccoli canali di irrigazione, un gradino sopra nella gerarchia ai semplici fossi, nascosti nella campagna, lontani dalle strade di passaggio oppure vicinissimi ma occultati dalla vegetazione, che offrono scorci a volte impensati e sorprendenti, magari arricchiti da un ponticello ad arco in pietra, che sono per chi ama fotografare come il miele per gli orsi.

    Ne ho trovato uno in particolare che mi affascina e che è entrato di diritto negli appunti fotografici dei luoghi da visitare spesso, in diverse stagioni e in diverse condizioni atmosferiche. Intanto ho fatto i primi scatti. Mica facile rendergli giustizia ma, come al solito, cerco di ottenere il meglio che posso dalle mie scarse attitudini fotografiche.

     

     

  • Come ritrovare una vecchia amica

    Come ritrovare una vecchia amica

    No, non è una puntata di una di quelle trasmissioni televisive che si adoperano per ritrovare persone scomparse. E’ l’esternazione della felicità di aver ritrovato una vecchia conoscenza, uno di quegli oggetti (termine un po’ freddo) che ci hanno accompagnato nel passato e di cui si avverte un po’ la nostalgia. Avete presente quando lo squalo individua una preda ed inizia a compiere giri concentrinci sempre più stretti fino a che raggiunge il suo obiettivo? Bene, mi sono comportato allo stesso modo con la Yashica FX3 Super 2000: ho continuato a spulciare le vendite on-line finché ho individuato ed acquistato ciò che volevo. Un venditore giapponese (che Dio benedica la precisione nipponica e la cura con cui conservano le fotocamere) aveva giusto quello che cercavo con, in più, l’obiettivo commercializzato a suo tempo in kit, il 50mm f/1.9 sempre Yashica. E, nel giro di una decina di giorni, con un occhio al calendario e l’altro al sito di tracking delle spedizioni, ho ricevuto un esemplare di quella che è stata la mia prima macchina fotografica. Per di più in condizioni ottimali. Poi c’è scappato anche un 20mm f/3.8 Cosina/Contax, giusto per essere un po’ più sul pezzo in argomento di paesaggi, ma lì è stata colpa del venditore che ha insistito per farmelo acquistare…

    Giusto il tempo di arrivare a casa, spacchettare un paio di rullini che avevo già tolto dal frigorifero (letteralmente) per l’evento e via a fotografare nella campagna circostante, un po’ per comodità e un po’ perché c’erano alcune situazioni interessanti che non ho voluto fotografare in digitale ma che ho deciso di “conservare” per fare il test al nuovo acquisto. Intendiamoci: niente opere d’arte, avete sbagliato fotografo. Solo alcuni scatti in libertà, mi verrebbe da dire in scioltezza, con le dita che trafficavano con esperienza sui tasti già noti e il mezzo sorriso da deficiente stampato in volto per la felicità.

    Alla fine, nel giro di pochi giorni, ho scattato due rullini negativi a colori di Kodak Portra 160 (foto con watermark in nero) e un rullino di diapositive Fuji Velvia 100 (foto con watermark in bianco). I risultati, un po’ per le caratteristiche intrinseche di queste due pellicole e anche per i diversi momenti di scatto, sono ovviamente eterogenei e come tali ve li propongo.

    In questo testo (“Yashica FX3, l’inizio”) se vi interessa, potrete leggere un po’ di storia della fotocamera. Per quel che mi riguarda, ho già riservato un posto d’onore alla Yashica FX3 vicino alle mie “vecchiette” Nikon, perché i ricordi vanno trattati bene. E’ tutto ciò che ci resta dei momenti felici passati.

  • La tëra

    La tëra

    Passeggiando per la campagna circostante il mio paese ho notato casualmente un filare di vite come non mi capitava di vedere ormai da diverso tempo, una forma di coltivazione dell’uva ormai in disuso ovunque, soprattutto nelle zone agricole a dominante vocazione vitivinicola: la tëra.

    Viene così definito in dialetto della bassa mantovana (altrove non ne ho idea) il filare di vite che orna i limiti delle coltivazioni formato, ovviamente, da piante di vite che vengono lasciate crescere notevolmente, e i cui tralci si allungano a destra e a sinistra della pianta stessa trovando appiglio su pali orizzontali fissati appositamente per favorirne l’appoggio. Questa struttura arriva a formare una sorta di galleria doppia, separata  al centro dai vitigni stessi e da altre piante, come querce e noci, che si trovano già nel filare o che vengono messe appositamente, offrendo un ulteriore sostegno alla struttura che si crea progressivamente.

    Non sono un esperto, anzi al contrario, ma credo che questo tipo di coltivazione della vite avesse come scopo quello di ottenere una produzione maggiore di uva a discapito (come dicono quelli che hanno studiato) della qualità del vino.

    In realtà, essendo un fervido sostenitore del lambrusco e trovando i moderni e asettici filari del vino “buono” (magari fermo come l’acqua di una pozzanghera e pastoso come una cucchiaiata di sapone), tutti cemento e fil di ferro con quattro foglie di vite in croce perché altrimenti si perde di percentuale zuccherina, ho rivisto con nostalgia profonda la tëra, perché mi sono tornati in mente i giorni trascorsi  in campagna dagli zii contadini, quando queste volte di foglie profumate erano un ombroso riparo dai raggi cocenti del sole al momento della merenda e ci si sedeva alla loro ombra a mangiare un panino col salame e qualche frutto; oppure i pomeriggi dell’infanzia trascorsi a giocare con gli amici, in cui le lunghe gallerie delle tëre si trasformavano nei corridoi di un palazzo di fantasia, in cui correre e giocare a nascondino. E che meraviglia la stagione della vendemmia, quando gli adulti tagliavano i pesanti grappoli e li riponevano con cura nelle grosse casse di legno e noi bambini ci ingegnavamo a rubare un chicco d’uva come se fino ad allora non fosse mai stata disponibile sulla pianta.

    Ma il mondo è andato avanti (?), le tëre scompaiono progressivamente e al posto di un bicchiere di lambrusco senza grilli per la testa ci dobbiamo sorbire quelli che hanno studiato che, calice alla mano (il bicchiere no, il bicchiere è volgare) ci dicono che quella roba slavata che sballottano nel vetro è un sauvignon dal colore ambrato, dall’odore fruttato con un retrogusto di nocciole delle Langhe cresciute in un campo di tarassaco.

    Poveri noi!

  • Il pioppeto

    Il pioppeto

    Il pioppeto – William Cowper

     

    Hanno abbattuto i pioppi, addio all’ombra

    e al mormorio del fresco colonnato,

    il vento piu’ non gioca ne’ canta tra le foglie,

    la loro immagine piu’ l’Ouse non riceve.

    Dodici anni fa scoprii un giorno

    l’amato boschetto e la riva dei pioppi,

    e ora nell’erba sono affondati

    e sedile mi fa chi ombra mi diede.

    Il merlo fuggito ad altro riparo,

    tra noccioli ha trovato rifugio alla calura,

    più non risuona la sua dolce voce

    sulla scena che tanto mi aveva incantato.

    Brevi scompaiono i miei anni,

    presto coi pioppi dovro’ giacere,

    una zolla sul petto, una pietra sul capo,

    prima che un bosco sul posto rinasca.

    La vista m’invita, piu’ d’ogni altra cosa,

    a meditare sugli effimeri piaceri umani:

    la vita e’ sogno, ma il piacere si consuma

    più rapido del respiro di un uomo.

     

    In memoria dell’amico Mauro

  • Io odio l’estate

    Io odio l’estate

    O almeno parecchi aspetti di essa. Questa avversione si mitiga nelle fresche mattinate che seguono ad un temporale notturno (rarità, ormai) ma il sentimento permane. Il vecchio, caro, rassicurante Anticiclone delle Azzorre si fa vedere sempre più raramente; ho persino il timore che non esistano più nemmeno le Azzorre. Indubbiamente tutto ciò è influenzato dal luogo in cui vivo, una zona in cui spesso al caldo si aggiunge l’umidità e allora son dolori.

    E io, genio incompreso, che ti faccio a questo punto? Niente, per esoricizzare il caldo, per fargli capire che, prima di stramazzare al suolo privo di sensi, il più forte sono io, penso bene di pianificare alcuni scatti dedicati a questa stagione, all’aspetto che assumono i luoghi a me familiari sotto la calura estiva: quindi una lotta con colori spesso appiattiti dalla troppa luce, cieli azzurro-insulso tendenti al bianco, ombre in alcuni casi dure in altri totalmente assenti.  Di conseguenza poche foto all’alba, niente foto notturne, ma essenzialmente foto scattate quando il sole picchia anche se sta sopraggiungendo la sera, senza uno straccio di nuvola all’orizzonte ad ammorbidire la scena e a sollevarmi il morale.

    E, non contento, penso bene di costringermi a scattare questa serie di foto con la pellicola, utilizzando una fotocamera analogica, ma tanto analogica, come la Mamiya RB67, che è talmente analogica da non avere nemmeno l’esposimetro incorporato, obbligandomi così a starci ancor di più, sotto al sole impietoso, per misurare con l’esposimetro manuale le varie luminosità della scena. Unica compagnia il cane fedele che, sdraiato in auto, mi avvisa se l’aria condizionata è a posto così o se devo alzare.

    Il risultato? Alcuni negativi (Kodak Portra 120 400 iso) 6×7 da passare nello scanner che restituiscono abbastanza fedelmente quello che volevo memorizzare e condividere: attimi di una stagione che proprio non riesco a farmi piacere, bellezza che sembra rimanere immobile per salvaguardre le residue energie rimaste, per sopravvivere.

    Aspettando l’Autunno, rimpiangendo la Primavera e rivalutando l’Inverno.