Quando ci andavo io (non ci giurerei, ma devo avere conosciuto anche la Montessori) il primo giorno di scuola – non importa se era la prima elementare o la quinta – era sempre emozionante.
Dopo un’estate di pantaloni corti, di giochi interminabili fino a che l’ululato materno ti richiamava a casa, di ginocchia sbucciate, ci ripresentavamo nel cortile scolastico tappezzato dai ricci caduti dagli ippocastani, tutti tirati a lucido e con la voglia di ritrovare quei volti perduti durante le vacanze.
Noi maschietti avevamo il grembiulino nero e le femmine bianco, era uguale per tutti e celava l’abbigliamento di chi si era vestito a nuovo per l’occasione come di chi aveva dovuto riciclare gli abiti del fratello maggiore. La cartella, anche se avrebbe dovuto contenere solo il sussidiario ed un paio di quaderni, ci faceva sembrare in realtà tanti piccoli sherpa, perché ci mettevamo di tutto: quaderni di scorta in caso il maestro decidesse di dettarci tutto il libro Cuore; una bella confezione di pastelli di legno decisamente più ecologici dei futuri pennarelli di plastica; colla naturalmente in pasta e rigorosamente in barattolo da un paio d’etti, utilissima per le ricerche a scuola ma infinitamente di più per l’album dei calciatori Panini; rigasquadragoniometro (proprio così come l’ho scritto) anche se non ho mai capito la loro reale utilità; cancelleria assortita. (Ora che ci penso: ecco da dove ho preso l’abitudine di stipare lo zaino fotografico con di tutto e di più…)
Quando qualcuno compiva gli anni, la mamma gli faceva portare a scuola le caramelle da regalare ai compagni, magari una in più a lei, quella bambina bionda con i capelli lisci che ci faceva arrossire fino alla punta dei piedi. Per Santa Lucia, ricorrenza da noi molto più sentita di Natale o Epifania, tutti portavano a scuola uno dei regali trovati in casa quella stessa mattina e con i quali non eravamo riusciti a giocare subito perché la campanella avrebbe squillato da lì a breve e il maestro allora, quel giorno, chiudeva un occhio e ci lasciava campo libero.
Se, molto raramente, l’insegnante (uno, rigorosamente uno, magari per tutti i cinque anni di scuola) ci sgridava o ci dava qualche punizione, ci guardavamo bene dal fare tragedia greca a casa, perché, in tal caso, un paio di sculaccioni preventivi sul sedere erano garantiti, in attesa dell’istruttoria: se il maestro ci aveva puniti, aveva avuto senz’altro qualche ottima ragione e i genitori si sarebbero guardati bene dal fare rimostranze o convocare avvocati, Telefono Azzurro e Protezione Civile.
E, dato che siamo in un blog fotografico, che noia l’annuale foto di rito seduto al banco, a fianco il pupazzo di Topo Gigio che reggeva un cartello con scritto “Topo Gigio mi dice ‘Studia!’ “, con la penna in mano come per scrivere chissà che e la faccia di un condannato ai lavori forzati. Dovrei averne ancora una in qualche cassetto: se la pesco giuro che faccio outing e la pubblico. Edit: Trovata! Ecco da dove ha imparato l’F.B.I. a fare le foto segnaletiche… (Foto Rizzi – Viadana)
Pur con tutti i piccoli problemi infantili, che allora ci sembravano enormi, eravamo catturati dalla magia della scuola: ci piaceva il flusso quotidiano dell’insegnamento strettamente correlato al trascorrere delle stagioni, alle ricorrenze del calendario ed a quelle religiose (il crocifisso in classe ancora non era capace di offendere alcuno); non avevamo cellulari precocemente affibbiati da genitori ansiosi; alla tv non era demandato il ruolo di baby-sitter o, peggio ancora, di genitore: un paio d’ore al massimo per i cartoni animati o le comiche di Stanlio e Ollio; riuscivamo a divertirci per ore e ore con una palla bucata, con una cartolina nei raggi della bicicletta, con una manciata di mattoncini Lego scoloriti e mordicchiati.
Ma solo dopo aver fatto tutti i compiti.
2 Comments
..bellissima Sergio! mi sembra che anche con la scrittura non te la cavi male !
Grazie mille Elena, troppo buona.