Tag: LIPU

  • Falco cuculo

    Falco cuculo

    Immagini del falco cuculo, scattate nella più grande colonia presente in Italia di questi piccoli rapaci.

    Ho la fortuna di abitare non troppo distante da un luogo magnifico che si trova nelle nostre campagne: un viale ombreggiato da numerosi platani che ospita la più grande colonia italiana del falco cuculo, piccolo e bellissimo rapace migratore. Avutane notizia sono partito zaino in spalla (quasi, perché la ventina di chilometri necessari a raggiungere il sito non li ho nelle gambe) e in un paio d’ore, cercando di non essere troppo invasivo, sono riuscito a scattare le foto che propongo in questo articolo. Si tratta, per la maggior parte delle immagini, di giovani falchi nati quest’anno, perché gli adulti (diventati appunto adulti per questo motivo) hanno preferito allontanarsi in un boschetto vicino. Per la cronaca: tutte le foto sono state scattate utilizzando la Nikon Z 50II e lo zoom tele Nikkor 180-600 mm f/5.6-6.3 (inchiodato a 600 mm ovviamente, i platani sono alti).

    Riporto di seguito il testo riguardante il falco cuculo preso direttamente dal sito ufficiale della LIPU, che racconta molto meglio di quanto potrei fare io le caratteristiche di questo rapace e le problematiche relative alla sua conservazione.

    Il Falco cuculo presenta uno spiccato dimorfismo sessuale. Il maschio è di colore grigio tendente al nero, La femmina è fulvo-rossiccia, con dorso grigio barrato. Le dimensioni sono medio-piccole e l’apertura alare, che non raggiunge gli 80 cm, ne fa un predatore solo rispetto a insetti in genere o, talvolta, piccoli mammiferi o uccelli.

    L’inverno lo trascorre tra il Sudafrica e il Kenya. D’estate, parte della popolazione resta in Africa centrale, per nidificare. Altri esemplari prendono la “via del nord”, arrivando a lambire l’Europa meridionale e, soprattutto, centro-orientale.

    La sua presenza in Italia come nidificante è notizia relativamente recente. È infatti solo dal 1995 che sono stati censiti i primi nidi, in provincia di Parma. È molto probabile che il Po abbia fatto da filo conduttore a quella che – pur con numeri ancora ridotti– appare come una vera e propria colonizzazione della Pianura Padana, con espansioni significative nel Mantovano, nel Modenese, nel Ferrarese e Polesine, fino alla provincia di Treviso.
    Per la verità, episodi di migrazioni “anomale” del Falco cuculo sono note da tempo – un esemplare è stato addirittura rinvenuto in Nord America – anche se la sua stretta dipendenza dagli ambienti aperti ne circoscrive gli areali di presenza alle sole aree (quali appunto la parte della Pianura Padana adiacente al corso del Po), ove sia praticata agricoltura estensiva, con grande abbondanza di prati stabili, medicai alternati a rari alberi e con una buona disponibilità di acqua.

    Il Falco cuculo ha uno stato di conservazione cattivo, a causa di un areale e di una popolazione ancora ridotta e del degrado e riduzione del suo habitat ottimale. In largo declino tra il 1970 e il 1990 – un declino che non ha accennato ad arrestarsi anche nel decennio successivo – il Falco cuculo nell’Unione Europea è presente con non più di 2000 coppie complessive, pari però al solo 3-4% della popolazione continentale complessiva. 
    Presenti oltre 150 coppie nidificanti in Italia, con un trend positivo che ovviamente non è in grado di compensare il grandissimo declino di alcune “popolazioni chiave” a livello continentale, specialmente Russia e Ucraina, ma anche Ungheria – dove la popolazione è passata dalle 2000-2.500 coppie degli anni Ottanta alle attuali 700-1200.

    Se la passano meglio le popolazioni asiatiche, così come appunto le popolazioni “marginali” che abitano l’Europa meridionale, tra cui l’Italia, che ospita una frazione probabilmente prossima all’1% di quella dell’Unione europea. Molti degli esemplari censiti nel nostro Paese, naturalmente, non sono nidificanti ma rappresentano individui di passaggio che si spostano, in primavera e autunno, da o per i siti di svernamento.

    A livello di coppie nidificanti, invece, la prima segnalazione risale al 1995 nel parmense. Segue Treviso, nel ’96. Quindi le Valli del Mezzano, nel Ferrarese, con 3-4 coppie censite nel 2002. Ulteriori segnalazioni hanno coinvolto Modena, Piacenza, la provincia di Rovigo e Venezia, mentre la sola provincia di Parma, attualmente ospita oltre 100 coppie con un trend fluttuante negli ultimi decenni.

    Il Falco cuculo soffre particolarmente di quei fattori di minaccia che comportano la distruzione dei siti idonei alla nidificazione. Questi fattori consistono essenzialmente nell’abbattimento di alberi ospitanti nidi di Corvidi – il Falco cuculo non si costruisce quasi mai il nido da solo ma occupa quello lasciato libero da corvi o similari – nonché, in particolare, nell’utilizzo massiccio di pesticidi che comporta una drastica riduzione della disponibilità di insetti, alimento principale per questa specie.

    L’intensificazione delle pratiche agricole e la tendenza a ridurre al minimo gli ambienti coltivati a cereali o a erbe da foraggio e gestiti in maniera non estensiva, hanno un impatto molto negativo sulla specie, soprattutto per quanto riguarda la disponibilità di prede. L’attuale areale di distribuzione è pesantemente alterato da infrastrutture di trasporto esistenti o in costruzione (in particolare l’autostrada Ti-Bre).

    Proteggere le colonie riproduttive e i siti di nidificazione noti dall’urbanizzazione, dall’abuso di pesticidi e dalla persecuzione diretta. Approfondire i fattori in grado di influenzare la presenza della specie per predisporre e attuare specifici indirizzi per la tutela degli habitat riproduttivi. Un progetto pluriennale condotto dalla Lipu, focalizzato su apposizione di cassette nido e monitoraggio del successo riproduttivo, ha consentito un aumento consistente della popolazione nidificante nel Parmense, che è la più importante a livello nazionale.

    Per ora circoscritta alla Pianura Padana centro-orientale, la popolazione italiana di Falco cuculo è stata ben monitorata negli ultimi 15 anni. Mancano tuttavia informazioni complete sui fattori in grado di influenzare la biologia riproduttiva, che aiuterebbero a predisporre indicazioni puntuali e più corrette sulle modalità di gestione degli ambienti agricoli per agevolare l’affermarsi della popolazione italiana.
    Trattandosi di specie di recente colonizzazione, non è possibile indicare un Valore di Riferimento Favorevole (FRV), anche se è utile proporre alcune utili indicazioni per la conservazione. 

    Un’altra azione chiave riguarda un approfondimento sui fattori in grado di influenzare la presenza e la nidificazione della specie che portino alla predisposizione e all’attuazione di specifici indirizzi per un’idonea gestione ambientale. 

    Probabilmente, a giocare un ruolo chiave per la conservazione della specie a livello globale, sarà da un lato la persistenza e la tutela di idonei habitat riproduttivi. Dall’altro, il monitoraggio delle condizioni di migrazione per e da i quartieri riproduttivi, senza tralasciare un approfondimento sulle condizioni di svernamento registrate in Africa.

     

  • Riserva naturale LIPU di Torrile e Trecasali

    Riserva naturale LIPU di Torrile e Trecasali

    La Riserva Naturale di Torrile e Trecasali è uno dei luoghi che frequento più volentieri quando ho voglia di fare qualche scatto naturalistico senza impazzire in pianificazione e senza sobbarcarmi chilometri su chilometri per raggiungerlo o, semplicemente, quando ho voglia di rilassarmi un poco nella piacevole quiete di questo luogo, in cui i soli rumori possono essere i richiami delle numerose specie animali che lo frequentano ed il passaggio del vento fra le fronde degli alberi (più qualche “mitragliata” di un fotografo che ci tiene a far sapere a tutti che ha la reflex più veloce del West…).

    La Riserva è nata nel 1988 grazie al lavoro ed alla indubbia passione di alcuni volontari della Lipu di Parma, che hanno gradatamente creato una zona umida naturale che si è unita alle preesistenti vasche di lavorazione di uno zuccherificio della zona e che ora ha una estensione totale che supera i 100 ettari. Nell’area della Riserva sono presenti, oltre al centro visitatori attrezzato anche per conferenze, 6 punti di osservazione, costituiti da capanni in legno attrezzati, raggiungibili attraverso comodi sentieri di terra battuta che si snodano fra la ricca vegetazione composta da alberi autoctoni, di molti dei quali si è persa ogni traccia nelle nostre campagne.

    In questo ecosistema palustre, nel corso degli anni, sono state osservate centinaia di specie di uccelli; sono presenti e nidificanti praticamente tutte le specie di ardeidi tipici del territorio italiano; numerose anche le specie di anatre, diversi rapaci e particolarmente preziosa è la presenza del Cavaliere d’Italia. Ovviamente numerosissimi i passeriformi, e altre presenze senza penne: mi è capitato di vedere scoiattoli, volpi ed altra “roba pelosa” solo intravista di sfuggita e assolutamente non riconosciuta.

    Come funziona? E’ semplice: si può accedere all’area della Riserva ed ai punti di osservazione semplicemente pagando l’ingresso giornaliero ma, meglio ancora sarebbe – come ho fatto io – sottoscrivere la tessera annuale LIPU che ha il doppio vantaggio di aiutare questa organizzazione nella sfida per preservare l’avifauna che popola o percorre il territorio italiano e consente nello stesso tempo di accedere liberamente alla aree protette per un intero anno, ovviamente nei giorni di apertura al pubblico che sono normalmente giovedì, sabato e domenica per la Riserva di Torrile e Trecasali; solo il Capanno Del Pettirosso rimane a pagamento anche per i soci, seppure per una cifra modesta ed il motivo è semplice: questo capanno di soli due posti è aperto unicamente nel periodo invernale e, dietro prenotazione telefonica o via mail, si ha la possibilità di osservare e, volendo, fotografare veramente da vicinissimo (sto parlando di pochi metri) picchi, cinciallegre, pettirossi, verdoni, cinciarelle ed altri uccellini meravigliosi che sono attirati dalle granaglie, dalle arachidi, dalle noci e dai semi di girasole messi dal personale volontario al momento della prenotazione in mangiatoie mimetizzate in tronchi di alberi caduti; inutile dire poi, che noci e nocciole richiamano anche alcuni scoiattoli golosi che, in cambio delle prelibatezze, sono disposti più o meno consapevolmente a farsi immortalare in tutta la loro eleganza e simpatia, magari anche mentre si dissetano nella grande vasca messa a disposizione per bagni ed abbeverata di tutti.

    Giusto ricordare che occorre osservare alcune semplici ma basilari regole di comportamento in questo ambiente: evitare di entrare in zone non aperte al pubblico; cercare di essere il più silenziosi possibile per non disturbare gli animali e, perché no, compromettersi la possibilità di vederli o fotografarli; mi vergogno a ricordarlo ma è meglio farlo: evitare assolutamente di sporcare questo luogo. E’ un santuario della vita ed è assolutamente indispensabile proteggerlo al meglio.

    Che attrezzatura fotografica serve? Dipende dalle possibilità individuali, ovviamente, ma una fotocamera che abbia una frequenza (“raffica”) di scatto importante ed una buona memoria temporanea (buffer) sarebbe benvenuta; non da’ fastidio se la suddetta fotocamera ha una valida gestione degli alti ISO, perché molto spesso si deve scattare a soggetti molto rapidi oppure in condizioni di luce precarie, soprattutto nella stagione autunnale ed invernale. Per le focali, ancora di più, vale il discorso possibilità ma già con un 300 mm su formato full frame o crop frame si riescono a fare cose carine. Utile ma non indispensabile un buon treppiede, magari con testa a bilanciere ma, ancora più utile, un bel bean-bag da appoggiare sui bordi delle feritoie dei capanni di osservazione; il treppiede consente di mantenere l’ottica all’interno del capanno e quindi di non far sporgere qualcosa che potrebbe turbare la tranquillità degli animali, il bean-bag consente una maggiore libertà di movimenti, anche se c’è sempre il rischio che qualche soggetto adocchi quella strana cosa cilindrica che sporge. A me piace rivestire il corpo dell’obiettivo ed il paraluce con quegli anelli mimetici in neoprene che hanno il doppio compito di rendere meno visibili gli obiettivi stessi e, al contempo, li proteggono dai numerosi piccoli urti che possono avvenire contro le strutture.

    Il mio zaino da caccia fotografica (mi piacciono i termini “caccia fotografica”: niente spargimenti di sangue e tanta soddisfazione nel portare a casa le “prede” fotografate sapendo che nella realtà sono ancora là fuori belle vispe) è solitamente composto da questi elementi:

    • Nikon D500, formato crop frame, che in pratica moltiplica le lunghezze focali degli obiettivi di x1,5, messa a fuoco rapida e precisa, raffica di scatto notevole e buffer pressoché inesauribile anche scattando in .raw;
    • Nikon D850, formato full frame, decisamente più “compassata” rispetto alla D500 ma con una qualità dei files notevole; posso usarla principalmente quando mi apposto nel Capanno Del Pettirosso, in cui i soggetti sono veramente molto vicini ed il fattore di moltiplica sugli obiettivi non è indispensabile; mi è capitato anche di usarla nei capanni dedicati agli aironi che a volte si avvicinano a sufficienza oppure per fotografare, sempre da questi capanni, il Martin Pescatore che con i suoi 30 grammi di coraggio e perseveranza non si cura di quegli sfigati che lo mitragliano di scatti dalle feritoie. Edit: ho provato in questi giorni ad utilizzare la Z7 abbinata al 500mm f/5.6, ne parlerò.
    • Nikkor AF-S 500mm f/5.6E PF ED VR, neonato di casa Nikon, leggero come lo zoom 70-200mm e con pressoché le stesse dimensioni, stabilizzato, con uno schema ottico nuovissimo che permette questi “contenimenti” e, di fatto, ne consente abbastanza agevolmente l’uso a mano libera; non è luminosissimo, ma per le mie esigenze e le mie tasche, è un gran obiettivo;
    • Nikkor AF-S 70-200mm f/2.8 ED VR, luminoso, abbastanza veloce, stabilizzato, qualitativo; riesco ad usarlo quasi esclusivamente nel Capanno del Pettirosso, ma quando posso farlo, i risultati sono spesso appaganti;
    • treppiedi Manfrotto MT055X PRO3 in alluminio con testa a bilanciere Benro GH3;
    • bean-bag “made in China” riempita non a fagioli ma con le “patatine” di polistirolo, decisamente più leggera da portare a spasso e assolutamente pratica; ottima anche per sedersi ogni tanto sulle monastiche panche di legno dei capanni;
    • ho rivestito gli obiettivi con le apposite coperture mimetiche della americana Lens Coat dedicate ai singoli modelli: molto ben sagomate, robuste, “rassicuranti” per me che ho sempre il patema di rompere qualcosa, piacevolmente e non grossolanamente mimetiche;
    • poi minuteria assortita: batterie di riserva, memorie XQD e SD, nastro leggermente autoadesivo mimetico per le riparazioni “volanti”, repellente per insetti (per la stagione estiva), testamento (per la stagione invernale, quattro ore immobile in un capanno non sono uno scherzo), pennellino, panno in microfibra e pompetta per le lenti, un praticissimo manuale proposto dalla LIPU che permette agli analfabeti ornitologici come me di provare a riconoscere le specie che fotografa.
    • E pazienza, tanta pazienza.