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  • Riserva naturale LIPU di Torrile e Trecasali

    Riserva naturale LIPU di Torrile e Trecasali

    La Riserva Naturale di Torrile e Trecasali è uno dei luoghi che frequento più volentieri quando ho voglia di fare qualche scatto naturalistico senza impazzire in pianificazione e senza sobbarcarmi chilometri su chilometri per raggiungerlo o, semplicemente, quando ho voglia di rilassarmi un poco nella piacevole quiete di questo luogo, in cui i soli rumori possono essere i richiami delle numerose specie animali che lo frequentano ed il passaggio del vento fra le fronde degli alberi (più qualche “mitragliata” di un fotografo che ci tiene a far sapere a tutti che ha la reflex più veloce del West…).

    La Riserva è nata nel 1988 grazie al lavoro ed alla indubbia passione di alcuni volontari della Lipu di Parma, che hanno gradatamente creato una zona umida naturale che si è unita alle preesistenti vasche di lavorazione di uno zuccherificio della zona e che ora ha una estensione totale che supera i 100 ettari. Nell’area della Riserva sono presenti, oltre al centro visitatori attrezzato anche per conferenze, 6 punti di osservazione, costituiti da capanni in legno attrezzati, raggiungibili attraverso comodi sentieri di terra battuta che si snodano fra la ricca vegetazione composta da alberi autoctoni, di molti dei quali si è persa ogni traccia nelle nostre campagne.

    In questo ecosistema palustre, nel corso degli anni, sono state osservate centinaia di specie di uccelli; sono presenti e nidificanti praticamente tutte le specie di ardeidi tipici del territorio italiano; numerose anche le specie di anatre, diversi rapaci e particolarmente preziosa è la presenza del Cavaliere d’Italia. Ovviamente numerosissimi i passeriformi, e altre presenze senza penne: mi è capitato di vedere scoiattoli, volpi ed altra “roba pelosa” solo intravista di sfuggita e assolutamente non riconosciuta.

    Come funziona? E’ semplice: si può accedere all’area della Riserva ed ai punti di osservazione semplicemente pagando l’ingresso giornaliero ma, meglio ancora sarebbe – come ho fatto io – sottoscrivere la tessera annuale LIPU che ha il doppio vantaggio di aiutare questa organizzazione nella sfida per preservare l’avifauna che popola o percorre il territorio italiano e consente nello stesso tempo di accedere liberamente alla aree protette per un intero anno, ovviamente nei giorni di apertura al pubblico che sono normalmente giovedì, sabato e domenica per la Riserva di Torrile e Trecasali; solo il Capanno Del Pettirosso rimane a pagamento anche per i soci, seppure per una cifra modesta ed il motivo è semplice: questo capanno di soli due posti è aperto unicamente nel periodo invernale e, dietro prenotazione telefonica o via mail, si ha la possibilità di osservare e, volendo, fotografare veramente da vicinissimo (sto parlando di pochi metri) picchi, cinciallegre, pettirossi, verdoni, cinciarelle ed altri uccellini meravigliosi che sono attirati dalle granaglie, dalle arachidi, dalle noci e dai semi di girasole messi dal personale volontario al momento della prenotazione in mangiatoie mimetizzate in tronchi di alberi caduti; inutile dire poi, che noci e nocciole richiamano anche alcuni scoiattoli golosi che, in cambio delle prelibatezze, sono disposti più o meno consapevolmente a farsi immortalare in tutta la loro eleganza e simpatia, magari anche mentre si dissetano nella grande vasca messa a disposizione per bagni ed abbeverata di tutti.

    Giusto ricordare che occorre osservare alcune semplici ma basilari regole di comportamento in questo ambiente: evitare di entrare in zone non aperte al pubblico; cercare di essere il più silenziosi possibile per non disturbare gli animali e, perché no, compromettersi la possibilità di vederli o fotografarli; mi vergogno a ricordarlo ma è meglio farlo: evitare assolutamente di sporcare questo luogo. E’ un santuario della vita ed è assolutamente indispensabile proteggerlo al meglio.

    Che attrezzatura fotografica serve? Dipende dalle possibilità individuali, ovviamente, ma una fotocamera che abbia una frequenza (“raffica”) di scatto importante ed una buona memoria temporanea (buffer) sarebbe benvenuta; non da’ fastidio se la suddetta fotocamera ha una valida gestione degli alti ISO, perché molto spesso si deve scattare a soggetti molto rapidi oppure in condizioni di luce precarie, soprattutto nella stagione autunnale ed invernale. Per le focali, ancora di più, vale il discorso possibilità ma già con un 300 mm su formato full frame o crop frame si riescono a fare cose carine. Utile ma non indispensabile un buon treppiede, magari con testa a bilanciere ma, ancora più utile, un bel bean-bag da appoggiare sui bordi delle feritoie dei capanni di osservazione; il treppiede consente di mantenere l’ottica all’interno del capanno e quindi di non far sporgere qualcosa che potrebbe turbare la tranquillità degli animali, il bean-bag consente una maggiore libertà di movimenti, anche se c’è sempre il rischio che qualche soggetto adocchi quella strana cosa cilindrica che sporge. A me piace rivestire il corpo dell’obiettivo ed il paraluce con quegli anelli mimetici in neoprene che hanno il doppio compito di rendere meno visibili gli obiettivi stessi e, al contempo, li proteggono dai numerosi piccoli urti che possono avvenire contro le strutture.

    Il mio zaino da caccia fotografica (mi piacciono i termini “caccia fotografica”: niente spargimenti di sangue e tanta soddisfazione nel portare a casa le “prede” fotografate sapendo che nella realtà sono ancora là fuori belle vispe) è solitamente composto da questi elementi:

    • Nikon D500, formato crop frame, che in pratica moltiplica le lunghezze focali degli obiettivi di x1,5, messa a fuoco rapida e precisa, raffica di scatto notevole e buffer pressoché inesauribile anche scattando in .raw;
    • Nikon D850, formato full frame, decisamente più “compassata” rispetto alla D500 ma con una qualità dei files notevole; posso usarla principalmente quando mi apposto nel Capanno Del Pettirosso, in cui i soggetti sono veramente molto vicini ed il fattore di moltiplica sugli obiettivi non è indispensabile; mi è capitato anche di usarla nei capanni dedicati agli aironi che a volte si avvicinano a sufficienza oppure per fotografare, sempre da questi capanni, il Martin Pescatore che con i suoi 30 grammi di coraggio e perseveranza non si cura di quegli sfigati che lo mitragliano di scatti dalle feritoie. Edit: ho provato in questi giorni ad utilizzare la Z7 abbinata al 500mm f/5.6, ne parlerò.
    • Nikkor AF-S 500mm f/5.6E PF ED VR, neonato di casa Nikon, leggero come lo zoom 70-200mm e con pressoché le stesse dimensioni, stabilizzato, con uno schema ottico nuovissimo che permette questi “contenimenti” e, di fatto, ne consente abbastanza agevolmente l’uso a mano libera; non è luminosissimo, ma per le mie esigenze e le mie tasche, è un gran obiettivo;
    • Nikkor AF-S 70-200mm f/2.8 ED VR, luminoso, abbastanza veloce, stabilizzato, qualitativo; riesco ad usarlo quasi esclusivamente nel Capanno del Pettirosso, ma quando posso farlo, i risultati sono spesso appaganti;
    • treppiedi Manfrotto MT055X PRO3 in alluminio con testa a bilanciere Benro GH3;
    • bean-bag “made in China” riempita non a fagioli ma con le “patatine” di polistirolo, decisamente più leggera da portare a spasso e assolutamente pratica; ottima anche per sedersi ogni tanto sulle monastiche panche di legno dei capanni;
    • ho rivestito gli obiettivi con le apposite coperture mimetiche della americana Lens Coat dedicate ai singoli modelli: molto ben sagomate, robuste, “rassicuranti” per me che ho sempre il patema di rompere qualcosa, piacevolmente e non grossolanamente mimetiche;
    • poi minuteria assortita: batterie di riserva, memorie XQD e SD, nastro leggermente autoadesivo mimetico per le riparazioni “volanti”, repellente per insetti (per la stagione estiva), testamento (per la stagione invernale, quattro ore immobile in un capanno non sono uno scherzo), pennellino, panno in microfibra e pompetta per le lenti, un praticissimo manuale proposto dalla LIPU che permette agli analfabeti ornitologici come me di provare a riconoscere le specie che fotografa.
    • E pazienza, tanta pazienza.

  • L’arcobaleno con le ali

    L’arcobaleno con le ali

    E’ da poco tempo che mi dedico (anche) alla fotografia naturalistica e dovendo fare i conti con le mie disponibilità di tempo ed altre più prosaiche, cerco di sfruttare al meglio le possibilità che mi sono offerte dalla fauna che popola le nostre zone . Quindi: se qualcuno non mi suggerisce i sei numerini magici vincenti, niente Serengeti e, men che meno, Yellowstone.

    Nei giorni scorsi ho avuto l’occasione di visitare un bellissimo sito in cui nidificano i gruccioni, grazie ad un laboratorio fotografico organizzato dall’amico Luca Giordano, fotografo naturalista piemontese. Si è trattato di una piacevolissima scoperta, soprattutto per me che fino ad ora avevo sempre e soltanto ammirato questi splendidi volatili in foto.

    Il gruccione, conosciuto anche come merope, è un uccello esile e coloratissimo: ha il dorso rosso-arancio, le parti inferiori sono blu e verdi, la gola è di un bel giallo acceso e una banda nera parte dal becco e attraversa la zona degli occhi. Comunque fate più alla svelta ad aprire una scatola di pastelli colorati e ve ne farete un’idea. Il becco è sottile, lungo e leggermente arcuato. L’adulto può raggiungere una lunghezza di 25-29 cm ed ha una apertura alare che arriva anche a 40 cm.

    Si nutre di insetti: il suo nome inglese è Bee-eater cioè “mangiatore di api” anche se, in realtà, il gruccione si nutre di diversi tipi di insetti alati, come vespe, bombi, coleotteri, libellule e quindi non solo api; generalmente le prede velenose, prima di essere ingoiate, vengono sfregate su un ramo per togliere il pungiglione ed eliminare il veleno. Per cacciare individua la preda da un posatoio e si lancia rapidamente in volo per la cattura. In una giornata un gruccione può arrivare a nutrirsi di più di 200 insetti.

     

    Sono uccelli migratori: passano l’Inverno nella zona tropicale dell’Africa e in Primavera raggiungono il sud-ovest dell’Europa ed alcune zone dell’est europeo. In Italia è molto presente nella Pianura Padana, nelle zone collinari e lungo la costa Adriatica. I gruccioni si riproducono generalmente  in colonie, a volte anche molto numerose; ogni coppia depone e custodisce dalle 5 alle 8 uova, al sicuro in lunghi cunicoli (dai 2 ai 4 metri) scavati nelle scarpate dei corsi d’acqua, in cave di sabbia o arenaria abbandonate, a volte anche verticalmente nel terreno. Verso la fine dell’estate i gruccioni con i nuovi nati al seguito, fanno ritorno in Africa.

    Ed è appunto una di queste colonie che ho avuto il privilegio di visitare, ammirando queste meraviglie da un capanno vicinissimo ai luoghi di cova ma, nello stesso tempo non invasivo, per non disturbare in alcun modo le nidiate, cosa che potrebbe portare persino al loro abbandono.

    Per quel che riguarda le problematiche legate alla tecnica, in realtà il discorso è semplice: quando si posano per consumare una cattura o per adocchiarne un’altra, possono essere fotografati abbastanza agevolmente; discorso diverso se si prova a fotografarli quando entrano od escono dal nido per l’alimentazione dei neonati: sono schegge colorate e, almeno a causa della mia scarsissima esperienza, affatto semplici da ritrarre (ma questa è una sfida per il futuro).

    Come attrezzatura ho utilizzato quello che offre il convento, ovvero una Nikon D500 per sfruttare raffica di scatto, buffer infinito e fattore di moltiplicazione associata al Nikkor 200-500 f/5.6; alcuni scatti “in posa” me li sono potuti permettere anche con la più lenta Nikon D800E, per avere files con l’indubbia qualità del sensore full frame. Tempi di scatto (e ISO di conseguenza) dettati dal contesto: con i gruccioni posati e tranquilli ho potuto utilizzare anche tempi lunghi ed ISO bassi, ma per l’accesso al nido tempi anche brevissimi (e imbranatura personale) non mi hanno regalato scatti puliti.

    Come a dire: ottima scusa per ritornare.


     

     

     

     

     

     

  • Appunti di sport

    Appunti di sport

    Nota di colore: ammetto che per un attimo, uno solo, avevo pensato ad un titolo tipo “Quella sporca ultima meta“, ma poi mi sono trattenuto.

    Comunque: non avevo mai provato a cimentarmi con la fotografia sportiva e l’occasione si è presentata con la partita di semifinale di andata del Campionato Italiano di Eccellenza di Rugby fra il Viadana ed il Calvisano.

    Il primo passo è stato quello di capire quali potevano essere le pre-impostazioni valide da utilizzare per la fotocamera: un conto è fotografare un paio di papaveri in un campo di grano ben radicati a terra, con treppiede, ISO al minimo, telecomando, specchio alzato, eccetera ed un altro è ritrarre atleti in azioni di gioco che si svolgono a velocità impressionante, con repentini cambi di direzione, luce variabile e l’intromissione improvvisa di soggetti fra il fotografo ed il soggetto principale. Mi sono riletto un testo semplice ma ricco di suggerimenti che mi è venuto buono in diverse occasioni, ho stalkerato un amico fotografo, ho spulciato un po’ il web e sono arrivato alla conclusione che la fotocamera più adatta da utilizzare (guardando nel mio zaino, ovviamente) era la Nikon D500, che con il formato DX (quasi equivalente al formato APS-C di Canon) mi avrebbe permesso di moltiplicare di una volta e mezza la lunghezza focale dell’obiettivo scelto, nel mio caso uno zoom Nikkor 70-200 f/2.8, senza contare l’ottimo modulo autofocus e il buffer capientissimo; l’obiettivo era un po’ “corto” per lo scopo, malgrado la moltiplicazione, ma questo passava il convento, considerando che l’unica alternativa per me praticabile era lo zoom Nikkor 200-500 f/5.6, indubbiamente adatto per lunghezze focali disponibili ma meno luminoso del fratellino e, vista la giornata prima piovosa e poi nuvolosa e l’orario di inizio del match fissato per le 16.00, ero ancora più convinto della scelta fatta.

    Per quanto concerne, poi, le impostazioni vere e proprie, la ricetta che ho utilizzato è semplice: sistema di autofocus continuo (per Nikon si chiama AF-C), priorità alla apertura di diaframma per poter decidere cosa avere a fuoco, ISO automatici in base ad una velocità di scatto prefissata; in pratica ho detto alla macchina di decidere a che ISO scattare mantenendo inalterato il tempo di scatto prescelto di 1/1000 di secondo. A tale proposito ho imparato una cosa nuova: quando modifichiamo la sensibilità ISO in macchina, generalmente possiamo farlo con variazioni standard (100 ISO, 200 ISO, eccetera); invece impostando l’automatismo ISO, questo varia in base alla necessità di scatto anche per frazioni di centinaia, tanto è vero che ho una foto scattata a ISO 560, per esempio. Per la memorizzazione degli scatti, seppure con qualche dubbio, ho optato per il formato .jpeg alla massima qualità possibile, rinunciando al tanto amato .raw; ciò mi ha permesso di utilizzare in tutta tranquillità le raffiche di scatto necessarie, senza riempire immediatamente la memoria (anche se, come già accennato, per riempire il buffer della D500 sarebbe necessario mettere una pietra sul tasto di scatto e andare al bar) e di portare a casa files comunque decenti. Accessorio decisamente indispensabile si è rivelato, poi, il monopiede Manfrotto, che ha svolto il doppio compito di donare una certa stabilità alla fotocamera e ha decisamente alleggerito il peso da reggere. E le mie spalle ringraziano.

    Impressioni sul campo (letteralmente)? Non è facile, non lo è per niente. Dopo questa seppur minima esperienza, guarderò con ancora più ammirazione i fotografi che lavorano agli eventi sportivi di qualsiasi genere. Coniugare qualità tecnica dello scatto, indispensabile affinché la foto venga presa in considerazione dai media, con un minimo di contenuto che renda interessante l’immagine stessa richiede veramente una miscela di perizia tecnica, esperienza e, è bene non scordalo mai ma questo vale anche per gli altri generi fotografici, amore per ciò che si fotografa.

    Ringrazio l’amico Claudio Benatti per il supporto, la società Rugby Viadana 1970 per il pass di accesso al rettangolo di gioco e l’amico Luca Zanella per le dritte fotografiche.

    Ah, il  Rugby Viadana ha vinto e mi auguro che la semifinale di ritorno in terra bresciana abbia uguale esito positivo, in modo da poter accedere alla finale scudetto.

  • La cinciarella e l’orso

    La cinciarella e l’orso

    Seconda “cattura”, dopo quella del Martin Pescatore di qualche mese fa, a cui tenevo in modo particolare: la cinciarella. Come da abitudine, l’Oasi LIPU di Torrile (PR) si rivela una vera miniera di tesori della natura e, per chi è interessato come me, fotografici; armandosi di pazienza, c’è veramente la possibilità di togliersi diverse soddisfazioni con la fotocamera. Intendiamoci: nulla a che vedere con certi capolavori naturalistici che vedo su siti e social, ma già solo l’essere riuscito a fotografare un animaletto che stavo cercando da tempo, in modo sufficientemente nitido e in una luce tutto sommato piacevole è per me motivo di grande soddisfazione.

     

    La cinciarella è un passeriforme lungo dai 10 ai 12 cm e con un peso attorno ai 12 grammi; ha un piumaggio che mi piace tantissimo, con una colorazione blu cobalto sulla nuca, sulle ali e sulla coda; ha una mascherina bianca attraversata da una linea nera all’altezza degli occhi, il dorso è verdognolo ed il petto è giallo; le zampette hanno una colorazione grigio-blu ed il becco è nero.

    La cinciarella si ciba preferibilmente di insetti (afidi, larve, ragni) ma nella stagione invernale non disdegna semi, bacche e frutta; se si predispongono delle mangiatoie per la stagione fredda si nutre anche di semi di girasole, arachidi e delle palline di grasso farcite con granaglie.

    Può nidificare ovunque: spaccature nei muri, ceppi, cavità degli alberi o anche nei nidi artificali; il periodo dell’accoppiamento inizia a febbraio e le uova (solitamente da 7 a 10) vengono deposte nei mesi da aprile a maggio; i piccoli godono delle cure di entrambi i genitori per circa una ventina di giorni.

    La diffusione della cinciarella va da dall’Europa occidentale fino all’Asia occidentale e settentrionale e vive prevalentemente nei boschi collinari o delle zone pianeggianti ma non è raro trovarla nei frutteti o nei giardini alla ricerca di cibo.

     

    E l’orso? Giusto, stavo scordandomene. Non sono arrivati i plantigradi a Torrile, tranquilli. L’orso era il mio compagno di capanno, ovvero un luogo in cui occorre restare il più immobili possibile, non produrre rumori e respirare solo quando strettamente necessario, perché gli animali vengono veramente a due passi. Ecco: fra sbuffi, schiarimenti di voce, calci involontari alla parete di legno del capanno, assestamenti continui di treppiede ed attrezzatura, giretto per sgranchirsi le gambe, assestamento della mimetizzazione, giretto per i bisogni e rumori assortiti, mi meraviglio di essere riuscito a vedere e fotografare la cinciarella.

  • Regolazione fine autofocus su Nikon D500 (e D5)

    Regolazione fine autofocus su Nikon D500 (e D5)

    Finalmente una buona notizia per tutti coloro che sono costretti a perdere tempo e calma per la calibrazione fine del sistema autofocus delle macchine reflex, al fine di correggere eventuali problemi di front o back focus: Nikon ha introdotto nel nuovo corpo macchina D500 (ed ovviamente anche nell’ammiraglia D5 rilasciata nel medesimo periodo) un sistema automatizzato per la regolazione fine dell’autofocus, denominato Automated AF Fine Tune.

    Come è noto nelle macchine reflex, oltre al sensore dedicato alla registrazione dell’immagine, c’è un secondo sensore, posizionato sotto lo specchio. La presenza dei due sensori potrebbe determinare un disallineamento tra il sensore di immagine ed il modulo secondario AF, richiedendo una taratura fine delle ottiche (ogni singola ottica) per evitare problemi.

    Naturalmente le aziende produttrici di fotocamere reflex e di lenti operano molti controlli per evitare il più possibile questi inconvenienti, ma i processi produttivi generano comunque differenze che, seppure contenute entro determinate tolleranze, è meglio correggere autonomamente per ottenere il meglio possibile dalle proprie attrezzature. E proprio da questa necessità è nata l’idea di Nikon dell’Automated AF Fine Tune, che consente a chiunque, senza ricorrere a laboratori specializzati o a laboriose misurazioni con ausili tipo Datacolor Spyder Lenscale (seppur molto valido), di effettuare quella micro-regolazione che permette alla coppia fotocamera-lente di operare al meglio la messa a fuoco.

    Come funziona? In pratica utilizzando il Live View della fotocamera si effettua una messa a fuoco tramite il sensore di immagine (e non quello secondario destinato alla messa a fuoco) facendo uso del sistema a contrasto.

    Il processo è relativamente semplice e veloce:

    • posizionate la fotocamera su un treppiede stabile (non una cineseria, per favore);
    • attivate il Live View e, premendo il tasto SET, centrate il punto di messa a fuoco;
    • operate la messa a fuoco automatica e, se necessario, correggetela manualmente sfruttando l’ingrandimento dell’immagine;
    • premete ora contemporaneamente il tasto della selezione della messa a fuoco e quello della registrazione video e manteneteli premuti;

                        

    • dopo qualche secondo si aprirà una finestra di dialogo che chiederà se desiderate regolare la messa a fuoco fine;
    • premete il tasto OK per salvare tutto.

    Alcune avvertenze suggerite da Nikon: per ottenere una buona calibrazione è consigliato operare la messa a fuoco ad una distanza di circa 40x rispetto alla focale dell’ottica; quindi se, per esempio, l’ottica è un 24mm, sarà necessario mettere a fuoco un soggetto posto ad almeno 960 millimetri, ovvero 96 centimetri. E anche: per alcuni obiettivi il valore di taratura ideale può variare in funzione della distanza del soggetto dalla macchina fotografica e ciò significa che è meglio effettuare la taratura ogni qual volta si renda necessario fotografare ad una certa distanza fissa come, ad esempio, una sessione di ritratto in studio. Inoltre: non sarebbe una cattiva idea ripetere l’operazione un paio di volte per vedere se i risultati di calibrazione sono i medesimi. Infine: poiché questa calibrazione è memorizzata solo per una lunghezza focale, in caso si debba tarare una lente zoom, è meglio effettuare la regolazione alla lunghezza focale maggiormente usata o, se necessario, ripeterla per la lunghezza focale che è richiesta in un determinato contesto. Io, per esempio, utilizzo per le foto naturalistiche il Nikkor 200-500mm perennemente “inchiodato” a 500mm e, ovviamente, ho effettuato a quella lunghezza focale la taratura.

    In definitiva questa automatizzazione del processo di microregolazione dell’autofocus promette molto bene; spero vivamente che possa essere perfezionata e, in futuro, applicata a tutte le fotocamere reflex magari consentendo il salvataggio di regolazioni diverse per diverse focali o distanze di messa a fuoco dello stesso obiettivo.