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  • Prun o… Moria?

    Prun o… Moria?

    Lo ammetto: appena entrato mi è venuto in mente il Monte Moria de Il Signore degli Anelli ed ho cominciato a guardarmi in giro aspettandomi di trovare il demone Balrog. Invece no, non c’era. E non c’era nemmeno Gandalf. O meglio: c’era, ma parlava veronese e andava in giro scattando foto. Le cave di Prun sono delle antiche cave di scaglia rosa sotterranee scavate nel Monte Prun nei pressi di Negrar (VR). Queste cave pare che risalgano addirittura al XIII secolo e sono rimaste attive almeno fino a buona parte del XX. Purtroppo sono molto pericolose perché soggette a crolli e non è possibile visitarle integralmente, ma quello che ho visto mi ha veramente entusiasmato. A parte i riferimenti fantasy, sono veramente suggestive ed alcuni scorci mi hanno fatto esclamare “Guarda, l’Antelope Canyon dei poveri!”. Le foto le ho fatte con l’iPhone, perché non mi sono portato tutto il necessario per fare una cosa seria. Come dire: mi sa che devo tornare per forza.


  • Il pioppeto

    Il pioppeto

    Il pioppeto – William Cowper

     

    Hanno abbattuto i pioppi, addio all’ombra

    e al mormorio del fresco colonnato,

    il vento piu’ non gioca ne’ canta tra le foglie,

    la loro immagine piu’ l’Ouse non riceve.

    Dodici anni fa scoprii un giorno

    l’amato boschetto e la riva dei pioppi,

    e ora nell’erba sono affondati

    e sedile mi fa chi ombra mi diede.

    Il merlo fuggito ad altro riparo,

    tra noccioli ha trovato rifugio alla calura,

    più non risuona la sua dolce voce

    sulla scena che tanto mi aveva incantato.

    Brevi scompaiono i miei anni,

    presto coi pioppi dovro’ giacere,

    una zolla sul petto, una pietra sul capo,

    prima che un bosco sul posto rinasca.

    La vista m’invita, piu’ d’ogni altra cosa,

    a meditare sugli effimeri piaceri umani:

    la vita e’ sogno, ma il piacere si consuma

    più rapido del respiro di un uomo.

     

    In memoria dell’amico Mauro

  • Io odio l’estate

    Io odio l’estate

    O almeno parecchi aspetti di essa. Questa avversione si mitiga nelle fresche mattinate che seguono ad un temporale notturno (rarità, ormai) ma il sentimento permane. Il vecchio, caro, rassicurante Anticiclone delle Azzorre si fa vedere sempre più raramente; ho persino il timore che non esistano più nemmeno le Azzorre. Indubbiamente tutto ciò è influenzato dal luogo in cui vivo, una zona in cui spesso al caldo si aggiunge l’umidità e allora son dolori.

    E io, genio incompreso, che ti faccio a questo punto? Niente, per esoricizzare il caldo, per fargli capire che, prima di stramazzare al suolo privo di sensi, il più forte sono io, penso bene di pianificare alcuni scatti dedicati a questa stagione, all’aspetto che assumono i luoghi a me familiari sotto la calura estiva: quindi una lotta con colori spesso appiattiti dalla troppa luce, cieli azzurro-insulso tendenti al bianco, ombre in alcuni casi dure in altri totalmente assenti.  Di conseguenza poche foto all’alba, niente foto notturne, ma essenzialmente foto scattate quando il sole picchia anche se sta sopraggiungendo la sera, senza uno straccio di nuvola all’orizzonte ad ammorbidire la scena e a sollevarmi il morale.

    E, non contento, penso bene di costringermi a scattare questa serie di foto con la pellicola, utilizzando una fotocamera analogica, ma tanto analogica, come la Mamiya RB67, che è talmente analogica da non avere nemmeno l’esposimetro incorporato, obbligandomi così a starci ancor di più, sotto al sole impietoso, per misurare con l’esposimetro manuale le varie luminosità della scena. Unica compagnia il cane fedele che, sdraiato in auto, mi avvisa se l’aria condizionata è a posto così o se devo alzare.

    Il risultato? Alcuni negativi (Kodak Portra 120 400 iso) 6×7 da passare nello scanner che restituiscono abbastanza fedelmente quello che volevo memorizzare e condividere: attimi di una stagione che proprio non riesco a farmi piacere, bellezza che sembra rimanere immobile per salvaguardre le residue energie rimaste, per sopravvivere.

    Aspettando l’Autunno, rimpiangendo la Primavera e rivalutando l’Inverno.

     

     

  • L’arcobaleno con le ali

    L’arcobaleno con le ali

    E’ da poco tempo che mi dedico (anche) alla fotografia naturalistica e dovendo fare i conti con le mie disponibilità di tempo ed altre più prosaiche, cerco di sfruttare al meglio le possibilità che mi sono offerte dalla fauna che popola le nostre zone . Quindi: se qualcuno non mi suggerisce i sei numerini magici vincenti, niente Serengeti e, men che meno, Yellowstone.

    Nei giorni scorsi ho avuto l’occasione di visitare un bellissimo sito in cui nidificano i gruccioni, grazie ad un laboratorio fotografico organizzato dall’amico Luca Giordano, fotografo naturalista piemontese. Si è trattato di una piacevolissima scoperta, soprattutto per me che fino ad ora avevo sempre e soltanto ammirato questi splendidi volatili in foto.

    Il gruccione, conosciuto anche come merope, è un uccello esile e coloratissimo: ha il dorso rosso-arancio, le parti inferiori sono blu e verdi, la gola è di un bel giallo acceso e una banda nera parte dal becco e attraversa la zona degli occhi. Comunque fate più alla svelta ad aprire una scatola di pastelli colorati e ve ne farete un’idea. Il becco è sottile, lungo e leggermente arcuato. L’adulto può raggiungere una lunghezza di 25-29 cm ed ha una apertura alare che arriva anche a 40 cm.

    Si nutre di insetti: il suo nome inglese è Bee-eater cioè “mangiatore di api” anche se, in realtà, il gruccione si nutre di diversi tipi di insetti alati, come vespe, bombi, coleotteri, libellule e quindi non solo api; generalmente le prede velenose, prima di essere ingoiate, vengono sfregate su un ramo per togliere il pungiglione ed eliminare il veleno. Per cacciare individua la preda da un posatoio e si lancia rapidamente in volo per la cattura. In una giornata un gruccione può arrivare a nutrirsi di più di 200 insetti.

     

    Sono uccelli migratori: passano l’Inverno nella zona tropicale dell’Africa e in Primavera raggiungono il sud-ovest dell’Europa ed alcune zone dell’est europeo. In Italia è molto presente nella Pianura Padana, nelle zone collinari e lungo la costa Adriatica. I gruccioni si riproducono generalmente  in colonie, a volte anche molto numerose; ogni coppia depone e custodisce dalle 5 alle 8 uova, al sicuro in lunghi cunicoli (dai 2 ai 4 metri) scavati nelle scarpate dei corsi d’acqua, in cave di sabbia o arenaria abbandonate, a volte anche verticalmente nel terreno. Verso la fine dell’estate i gruccioni con i nuovi nati al seguito, fanno ritorno in Africa.

    Ed è appunto una di queste colonie che ho avuto il privilegio di visitare, ammirando queste meraviglie da un capanno vicinissimo ai luoghi di cova ma, nello stesso tempo non invasivo, per non disturbare in alcun modo le nidiate, cosa che potrebbe portare persino al loro abbandono.

    Per quel che riguarda le problematiche legate alla tecnica, in realtà il discorso è semplice: quando si posano per consumare una cattura o per adocchiarne un’altra, possono essere fotografati abbastanza agevolmente; discorso diverso se si prova a fotografarli quando entrano od escono dal nido per l’alimentazione dei neonati: sono schegge colorate e, almeno a causa della mia scarsissima esperienza, affatto semplici da ritrarre (ma questa è una sfida per il futuro).

    Come attrezzatura ho utilizzato quello che offre il convento, ovvero una Nikon D500 per sfruttare raffica di scatto, buffer infinito e fattore di moltiplicazione associata al Nikkor 200-500 f/5.6; alcuni scatti “in posa” me li sono potuti permettere anche con la più lenta Nikon D800E, per avere files con l’indubbia qualità del sensore full frame. Tempi di scatto (e ISO di conseguenza) dettati dal contesto: con i gruccioni posati e tranquilli ho potuto utilizzare anche tempi lunghi ed ISO bassi, ma per l’accesso al nido tempi anche brevissimi (e imbranatura personale) non mi hanno regalato scatti puliti.

    Come a dire: ottima scusa per ritornare.


     

     

     

     

     

     

  • Meglio ta(g)rdi che mai: Lenstag

    Meglio ta(g)rdi che mai: Lenstag

    Non è una novità, ma poiché mi sono deciso solo recentemente ad utilizzarne i servizi, volevo dire due parole su Lenstag, un sito internet usufruibile anche tramite applicazione per smartphone (indifferentemente per iOS e per Android).

    Sia i fotografi professionisti che i semplici appassionati come me, dispongono di diversa attrezzatura fotografica, tanta o poca non ha alcuna importanza; ciò che conta è che l’acquisto di questa attrezzatura è costato parecchi sacrifici e, come purtroppo spesso accade, vedersela sottratta è veramente un danno materiale e morale non indifferente. Questo può accadere secondo modalità diverse: un furto in casa, un furto in auto, qualcuno che ci ruba lo zaino fotografico mentre siamo impegnati a scattare e la nostra attenzione è rivolta altrove ma il comune risultato di questi casi è il danno che riportiamo.

    A parte attenzione e prudenza, non sono molte le armi con cui combattere questo problema: denuncia del furto subìto alle autorità, apertura di sinistro assicurativo (ammesso e non concesso di aver stipulato una onerosissima polizza su materiale fotografico, equiparata dalle compagnie alla polizza r. c. di un Boeing 747…), passaparola sui social.

    Da un po’ di tempo, però, c’è anche la possibilità di utilizzare i servizi messi a disposizione dal sito Lenstag. Di cosa parliamo? E’ un metodo di catalogazione del proprio materiale fotografico, ideato da un ingegnere del settore mobile di Google (ecco spiegata l’ottima interazione del servizio con il web), che può essere di aiuto nel processo di ritrovamento. Il suo utilizzo è molto semplice: si accede al sito www.lenstag.com, ci si registra semplicemente con un indirizzo mail come login ed una password a piacere (1234 è inviolabile, ma anche 0000 non scherza…) e si inizia a compilare i campi del modulo con il numero di serie della vostra fotocamera, dei vostri obiettivi, flash, battery-grip, eccetera, integrando ogni compilazione con una foto dell’oggetto in cui si legga chiaramente lo stesso numero di serie; io ho compiuto questa operazione utilizzando l’applicazione sullo smartphone con la comodità di poter utilizzare la fotocamera dello stesso per inserire la foto. Inutile rammentarvi che i numeri di serie, in genere, si trovano sulla base della macchina fotografica (a volte sul dorso, nei modelli meno recenti), sul barilotto dell’obiettivo vicino all’innesto e così via.

    E adesso? Una volta inseriti i dati del materiale, esso sarà automaticamente abbinato ad un codice numerico che indicherà tutto ciò che è nostro in una lista fruibile dalla comunità di Lenstag. Se chi ci dovesse aver rubato qualcosa tentasse di venderlo online, Lenstag, tramite un algoritmo legato al numero di serie che abbiamo registrato, ci invierà una mail avvisandoci del tentativo di vendita e di fatto regalandoci una speranza di trovare la nostra attrezzatura; e non è tutto: se il ladro pensasse di non vendere l’attrezzatura ma di tenerla per sé ed utilizzarla, l’eventuale pubblicazione di fotografie su internet verrebbe rilevata dal suddetto algoritmo grazie sempre al numero di serie contentuo nei dati Exif dello scatto e anche in questo caso riceveremmo una mail di avviso. C’è anche un’ultima possibilità, anch’essa utile per ritrovare materiale sottratto: se ci apprestiamo ad acquistare una macchina o un obiettivo usati, basterà inserire il numero di serie nell’applicazione ed in tempo ragionevolmente breve questa verificherà se lo stesso risulta appartenere ad oggetti rubati, di fatto evitandoci un acquisto incauto ed avvisando il vero proprietario della tentata vendita.

    Come già accennato, sia il sito web che l’applicazione mobile sono semplici da utilizzare; la versione per smartphone è anche localizzata decentemente in lingua italiana. Il tutto è gratuito. Esiste anche una versione pro, a pagamento (attualmente 19 $ all’anno), che però ritengo più utile per gli utenti statunitensi, per una serie servizi aggiuntivi non godibili da noi.

     

     

     

     

     

  • Appunti di sport

    Appunti di sport

    Nota di colore: ammetto che per un attimo, uno solo, avevo pensato ad un titolo tipo “Quella sporca ultima meta“, ma poi mi sono trattenuto.

    Comunque: non avevo mai provato a cimentarmi con la fotografia sportiva e l’occasione si è presentata con la partita di semifinale di andata del Campionato Italiano di Eccellenza di Rugby fra il Viadana ed il Calvisano.

    Il primo passo è stato quello di capire quali potevano essere le pre-impostazioni valide da utilizzare per la fotocamera: un conto è fotografare un paio di papaveri in un campo di grano ben radicati a terra, con treppiede, ISO al minimo, telecomando, specchio alzato, eccetera ed un altro è ritrarre atleti in azioni di gioco che si svolgono a velocità impressionante, con repentini cambi di direzione, luce variabile e l’intromissione improvvisa di soggetti fra il fotografo ed il soggetto principale. Mi sono riletto un testo semplice ma ricco di suggerimenti che mi è venuto buono in diverse occasioni, ho stalkerato un amico fotografo, ho spulciato un po’ il web e sono arrivato alla conclusione che la fotocamera più adatta da utilizzare (guardando nel mio zaino, ovviamente) era la Nikon D500, che con il formato DX (quasi equivalente al formato APS-C di Canon) mi avrebbe permesso di moltiplicare di una volta e mezza la lunghezza focale dell’obiettivo scelto, nel mio caso uno zoom Nikkor 70-200 f/2.8, senza contare l’ottimo modulo autofocus e il buffer capientissimo; l’obiettivo era un po’ “corto” per lo scopo, malgrado la moltiplicazione, ma questo passava il convento, considerando che l’unica alternativa per me praticabile era lo zoom Nikkor 200-500 f/5.6, indubbiamente adatto per lunghezze focali disponibili ma meno luminoso del fratellino e, vista la giornata prima piovosa e poi nuvolosa e l’orario di inizio del match fissato per le 16.00, ero ancora più convinto della scelta fatta.

    Per quanto concerne, poi, le impostazioni vere e proprie, la ricetta che ho utilizzato è semplice: sistema di autofocus continuo (per Nikon si chiama AF-C), priorità alla apertura di diaframma per poter decidere cosa avere a fuoco, ISO automatici in base ad una velocità di scatto prefissata; in pratica ho detto alla macchina di decidere a che ISO scattare mantenendo inalterato il tempo di scatto prescelto di 1/1000 di secondo. A tale proposito ho imparato una cosa nuova: quando modifichiamo la sensibilità ISO in macchina, generalmente possiamo farlo con variazioni standard (100 ISO, 200 ISO, eccetera); invece impostando l’automatismo ISO, questo varia in base alla necessità di scatto anche per frazioni di centinaia, tanto è vero che ho una foto scattata a ISO 560, per esempio. Per la memorizzazione degli scatti, seppure con qualche dubbio, ho optato per il formato .jpeg alla massima qualità possibile, rinunciando al tanto amato .raw; ciò mi ha permesso di utilizzare in tutta tranquillità le raffiche di scatto necessarie, senza riempire immediatamente la memoria (anche se, come già accennato, per riempire il buffer della D500 sarebbe necessario mettere una pietra sul tasto di scatto e andare al bar) e di portare a casa files comunque decenti. Accessorio decisamente indispensabile si è rivelato, poi, il monopiede Manfrotto, che ha svolto il doppio compito di donare una certa stabilità alla fotocamera e ha decisamente alleggerito il peso da reggere. E le mie spalle ringraziano.

    Impressioni sul campo (letteralmente)? Non è facile, non lo è per niente. Dopo questa seppur minima esperienza, guarderò con ancora più ammirazione i fotografi che lavorano agli eventi sportivi di qualsiasi genere. Coniugare qualità tecnica dello scatto, indispensabile affinché la foto venga presa in considerazione dai media, con un minimo di contenuto che renda interessante l’immagine stessa richiede veramente una miscela di perizia tecnica, esperienza e, è bene non scordalo mai ma questo vale anche per gli altri generi fotografici, amore per ciò che si fotografa.

    Ringrazio l’amico Claudio Benatti per il supporto, la società Rugby Viadana 1970 per il pass di accesso al rettangolo di gioco e l’amico Luca Zanella per le dritte fotografiche.

    Ah, il  Rugby Viadana ha vinto e mi auguro che la semifinale di ritorno in terra bresciana abbia uguale esito positivo, in modo da poter accedere alla finale scudetto.

  • Valigetta rigida MAX 505

    Valigetta rigida MAX 505

    L’esigenza di avere a disposizione un contenitore pratico, robusto e possibilmente configurabile per conservare in casa l’attrezzatura fotografica e che fosse, al contempo, facilmente trasportabile in auto in caso di uscita d’emergenza (fotografica) mi ha spinto a provare diverse soluzioni, alla ricerca di quella più consona alle mie esigenze. Ho provato con gli zaini fotografici, che si sono rivelati molto buoni a livello di protezione, praticità e, ovviamente, prontezza all’uso ma che hanno il “difetto” di avere spallacci e cintura vita e, quindi, di occupare molto più spazio della loro reale capacità. Ho provato anche una sorta di contenitori in tessuto, imbottiti e con separatori configurabili, ma senza spallacci, cinture o cinghie varie: ottimi per il loro ingombro reale nel mobile di conservazione, un pochino “debolucci” per quanto riguarda la resistenza agli urti e, ovviamente, assolutamente inadatti al trasporto, se non abbinati ad uno zaino che li contenesse, scopo per il quale, per altro, erano stati creati.

    Ultimamente sto provando (l’ho acquistata, malelingue, non sono così fortunato da poter condurre test sponsorizzati) una valigetta rigida con imbottitura in spugna sagomabile, il modello MAX 505 S della RG Cases.

    Viene venduta in diversi modelli, per dimensioni e caratteristiche. Quella che sto utilizzando io ha il corpo in polipropilene copolimero con pareti spesse per garantire una buona resistenza agli urti, con quattro chiusure e perni in nylon, manico in materiale abbastanza morbido, guarnizione ermetica e persino la valvola automatica di pressurizzazione. Separatamente si possono acquistare le spugne precubettate (quella sul coperchio è invece bugnata) che sono facilmente sagomabili per sottrazione attorno a ciò che desideriamo proteggere, cioè asportando un cubetto di spugna alla volta fino a che abbiamo ottenuto una cavità consona alla sagoma dell’oggetto da contenere; oppure, sempre a parte, è acquistabile il kit pronto per l’attrezzatura fotografica, con pareti amovibili. Fra gli accessori disponibili ci sono anche una tracolla e i lucchetti a combinazione e la valigetta è già predisposta per la loro eventuale applicazione. Io ho approfittato di una offerta on-line e sono riuscito ad acquistare valigia e spugne in un sol colpo al prezzo della sola valigia e senza spese di spedizione (provate a dire un negozio web a caso…), ma ho intenzione di provare anche il kit fotografico.

    Come dicevo, queste valigette sono prodotte in diversi modelli e misure; quella che ho acquistato per me misura esternamente 55,5×21,1×42,8 cm ed è di colore arancio decisamente vivo, al limite dell’antiinfortunistica, ma mi piace; c’è anche in versione nera. Internamente le misure sono 50x35x19,4 cm. Completa di spugna pesa circa 4,3 kg, non una piuma effettivamente, ma il dilemma era sicurezza o trasportabilità: a me interessava la prima.

    Le prime impressioni d’uso sono decisamente positive: la valigetta è effettivamente robusta, ha il pregio di essere ermetica (non l’ho buttata in uno stagno, ma con la pioggia regge alla grande), è impilabile e se fate le cose con calma al momento di sagomare la spugna, al suo interno gli oggetti sono praticamente immobili ed ammortizzati, opzione che, quando si parla di materiale elettronico, fastidio non dà.

    Lati negativi? Ho detto poco fa che ”…se fate le cose con calma al momento di sagomare la spugna,…” perché, effettivamente, occorre prestare attenzione nello staccare i cubetti di spugna, prima di tutto per non creare una forma più larga dell’oggetto da contenere e soprattutto perché, una volta staccati, i cubetti non sono riattaccabili se non con colla e relative problematiche. Inoltre, ma questo ve lo potrò dire più avanti, devo verificare se la spugna, con il passare del tempo, tenda a “sbriciolare” ed a produrre quella polverina che, corpi tropicalizzati o no, a me personalmente infastidirebbe molto.

  • La cinciarella e l’orso

    La cinciarella e l’orso

    Seconda “cattura”, dopo quella del Martin Pescatore di qualche mese fa, a cui tenevo in modo particolare: la cinciarella. Come da abitudine, l’Oasi LIPU di Torrile (PR) si rivela una vera miniera di tesori della natura e, per chi è interessato come me, fotografici; armandosi di pazienza, c’è veramente la possibilità di togliersi diverse soddisfazioni con la fotocamera. Intendiamoci: nulla a che vedere con certi capolavori naturalistici che vedo su siti e social, ma già solo l’essere riuscito a fotografare un animaletto che stavo cercando da tempo, in modo sufficientemente nitido e in una luce tutto sommato piacevole è per me motivo di grande soddisfazione.

     

    La cinciarella è un passeriforme lungo dai 10 ai 12 cm e con un peso attorno ai 12 grammi; ha un piumaggio che mi piace tantissimo, con una colorazione blu cobalto sulla nuca, sulle ali e sulla coda; ha una mascherina bianca attraversata da una linea nera all’altezza degli occhi, il dorso è verdognolo ed il petto è giallo; le zampette hanno una colorazione grigio-blu ed il becco è nero.

    La cinciarella si ciba preferibilmente di insetti (afidi, larve, ragni) ma nella stagione invernale non disdegna semi, bacche e frutta; se si predispongono delle mangiatoie per la stagione fredda si nutre anche di semi di girasole, arachidi e delle palline di grasso farcite con granaglie.

    Può nidificare ovunque: spaccature nei muri, ceppi, cavità degli alberi o anche nei nidi artificali; il periodo dell’accoppiamento inizia a febbraio e le uova (solitamente da 7 a 10) vengono deposte nei mesi da aprile a maggio; i piccoli godono delle cure di entrambi i genitori per circa una ventina di giorni.

    La diffusione della cinciarella va da dall’Europa occidentale fino all’Asia occidentale e settentrionale e vive prevalentemente nei boschi collinari o delle zone pianeggianti ma non è raro trovarla nei frutteti o nei giardini alla ricerca di cibo.

     

    E l’orso? Giusto, stavo scordandomene. Non sono arrivati i plantigradi a Torrile, tranquilli. L’orso era il mio compagno di capanno, ovvero un luogo in cui occorre restare il più immobili possibile, non produrre rumori e respirare solo quando strettamente necessario, perché gli animali vengono veramente a due passi. Ecco: fra sbuffi, schiarimenti di voce, calci involontari alla parete di legno del capanno, assestamenti continui di treppiede ed attrezzatura, giretto per sgranchirsi le gambe, assestamento della mimetizzazione, giretto per i bisogni e rumori assortiti, mi meraviglio di essere riuscito a vedere e fotografare la cinciarella.

  • Regolazione fine autofocus su Nikon D500 (e D5)

    Regolazione fine autofocus su Nikon D500 (e D5)

    Finalmente una buona notizia per tutti coloro che sono costretti a perdere tempo e calma per la calibrazione fine del sistema autofocus delle macchine reflex, al fine di correggere eventuali problemi di front o back focus: Nikon ha introdotto nel nuovo corpo macchina D500 (ed ovviamente anche nell’ammiraglia D5 rilasciata nel medesimo periodo) un sistema automatizzato per la regolazione fine dell’autofocus, denominato Automated AF Fine Tune.

    Come è noto nelle macchine reflex, oltre al sensore dedicato alla registrazione dell’immagine, c’è un secondo sensore, posizionato sotto lo specchio. La presenza dei due sensori potrebbe determinare un disallineamento tra il sensore di immagine ed il modulo secondario AF, richiedendo una taratura fine delle ottiche (ogni singola ottica) per evitare problemi.

    Naturalmente le aziende produttrici di fotocamere reflex e di lenti operano molti controlli per evitare il più possibile questi inconvenienti, ma i processi produttivi generano comunque differenze che, seppure contenute entro determinate tolleranze, è meglio correggere autonomamente per ottenere il meglio possibile dalle proprie attrezzature. E proprio da questa necessità è nata l’idea di Nikon dell’Automated AF Fine Tune, che consente a chiunque, senza ricorrere a laboratori specializzati o a laboriose misurazioni con ausili tipo Datacolor Spyder Lenscale (seppur molto valido), di effettuare quella micro-regolazione che permette alla coppia fotocamera-lente di operare al meglio la messa a fuoco.

    Come funziona? In pratica utilizzando il Live View della fotocamera si effettua una messa a fuoco tramite il sensore di immagine (e non quello secondario destinato alla messa a fuoco) facendo uso del sistema a contrasto.

    Il processo è relativamente semplice e veloce:

    • posizionate la fotocamera su un treppiede stabile (non una cineseria, per favore);
    • attivate il Live View e, premendo il tasto SET, centrate il punto di messa a fuoco;
    • operate la messa a fuoco automatica e, se necessario, correggetela manualmente sfruttando l’ingrandimento dell’immagine;
    • premete ora contemporaneamente il tasto della selezione della messa a fuoco e quello della registrazione video e manteneteli premuti;

                        

    • dopo qualche secondo si aprirà una finestra di dialogo che chiederà se desiderate regolare la messa a fuoco fine;
    • premete il tasto OK per salvare tutto.

    Alcune avvertenze suggerite da Nikon: per ottenere una buona calibrazione è consigliato operare la messa a fuoco ad una distanza di circa 40x rispetto alla focale dell’ottica; quindi se, per esempio, l’ottica è un 24mm, sarà necessario mettere a fuoco un soggetto posto ad almeno 960 millimetri, ovvero 96 centimetri. E anche: per alcuni obiettivi il valore di taratura ideale può variare in funzione della distanza del soggetto dalla macchina fotografica e ciò significa che è meglio effettuare la taratura ogni qual volta si renda necessario fotografare ad una certa distanza fissa come, ad esempio, una sessione di ritratto in studio. Inoltre: non sarebbe una cattiva idea ripetere l’operazione un paio di volte per vedere se i risultati di calibrazione sono i medesimi. Infine: poiché questa calibrazione è memorizzata solo per una lunghezza focale, in caso si debba tarare una lente zoom, è meglio effettuare la regolazione alla lunghezza focale maggiormente usata o, se necessario, ripeterla per la lunghezza focale che è richiesta in un determinato contesto. Io, per esempio, utilizzo per le foto naturalistiche il Nikkor 200-500mm perennemente “inchiodato” a 500mm e, ovviamente, ho effettuato a quella lunghezza focale la taratura.

    In definitiva questa automatizzazione del processo di microregolazione dell’autofocus promette molto bene; spero vivamente che possa essere perfezionata e, in futuro, applicata a tutte le fotocamere reflex magari consentendo il salvataggio di regolazioni diverse per diverse focali o distanze di messa a fuoco dello stesso obiettivo.

  • Metà di una foglia

    Metà di una foglia

    portfolie

    Sono a metà del progetto Portfolie. Sinceramente non me ne sono reso conto del fatto che metà del tempo stabilito sia già trascorso.

    Ma cos’è Portfolie? E’ il titolo che ho voluto dare, miscelando i termini Portfolio e Foglie, ad un cosiddetto Project 52, ovvero l’impegno (morale) a produrre una foto alla settimana, per cinquantadue settimane. Praticamente un anno di clic cadenzati.

    Oddio, ci sarebbe stato anche il Project 365, una foto al giorno, ma credo che quello sia un progetto per quando sarò in pensione.

    Non è un compito impossibile da portare a termine, se si escludono alcuni rari casi in cui impegni personali o meteo veramente inclemente mi hanno messo in difficoltà ed ho, per così dire, un poco “forzato” lo scatto.

    Io, poi, ho deciso di complicarmi leggermente la vita, pensando ad un filo rosso fotografico, definendo un tema e non accettando il semplice “è valido tutto”. Ho scelto le foglie.

    Un po’ perché ogni volta che osservo attentamente le loro forme, le sfumature di colore, la loro struttura più intima, ne rimango affascinato. Sono sempre belle. Da sole, insieme ad altre foglie dello stesso tipo o diverse, ambientate nel paesaggio o fotografate da vicinissimo. Ma anche perché, bighellonando per paesaggi della Bassa o sulle terre alte, è impossibile non incontrare “quella” foglia che rapisce la mia attenzione. E per le emergenze di mobilità c’è sempre il giardino di casa, catalogo ricchissimo di foglie e fonte comodissima di ispirazione, il set fotografico in infradito, come amo definirlo. Inoltre mi sono reso conto che avere un obiettivo, un progetto appunto, facilita spesso la vita di chi ama fotografare ma, ogni tanto, è a corto di idee. Quante volte mi è capitato di uscire dal lavoro, osservare un cielo bellissimo, tornare a casa, caricare in fretta e furia lo zaino fotografico in auto e partire a razzo, convinto di portare a casa “La Foto” e tornare invece un’ora dopo con la scheda SD vuota o contenente scatti talmente insulsi che si cancellano da soli, senza attivare l’opzione da menù e con un umore che definire nero è ottimismo. Ecco, in questi frangenti, il fatto di avere comunque un compito da svolgere mi aiuta veramente tanto. Provare per credere.

    E adesso, le altre ventisei settimane?

    Niente, avanti così, malgrado l’inverno imminente regali un po’ meno spunti.

    Anche se… gli aghi delle piante sempreverdi, puliti, bagnati dalla pioggia o ricoperti di neve, le foglie morte appoggiate morbidamente sulla prima neve, i cespugli di foglie e bacche colorate, le foglie del…

    Va bene, esco a fotografare.

    edit: Non so se alla fine il mini-sito rimarrà attivo, magari fra circa sei mesi la pagina si aprirà con un “error 404: page not found“, non ho ancora deciso; magari salverò le immagini in una cartella apposita contenuta in questo sito, oppure deciderò di stampare le cinquantadue foto in un libro di ampia tiratura: tre copie. Una per me, una se per caso qualcuno me la chiede ed una di scorta nel caso si rovini la prima.

  • Se son normali…

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  • Mamiya RB67 Pro SD

    Mamiya RB67 Pro SD

    mamiya_01

    Altrove ho spiegato la mia esigenza di prendermi alcune pause dal digitale e “tornare” a fotografare in analogico, con una fotocamera a pellicola 35mm, una Nikon F6 per la precisione.

    Ecco, poiché le scimmie tecnologiche girano sempre in coppia, ho pensato bene di alleggerire un poco l’attrezzatura analogica ed affiancare alla suddetta F6 una macchina più gestibile, meno ingombrante e pesante: la Mamiya RB67 Pro SD.

    Sto scherzando, la RB67 non è grossa e pesante. Di più. Sono due chili, seicento grammi e rotti di metallo, vetro e plastica (poca). Ed è grande, cavolo se lo è.

    E’ una fotocamera cosiddetta “medio formato” che utilizza le pellicole a rullino tipo 120 e 220 e con la quale è possibile ottenere negativi in formato 6×7 (il formato base) ma anche il 6×4,5 oppure il 6×8, senza trascurare (ammesso di trovarlo) il 7×7 su pellicola istantanea tipo Polaroid.

    Inutile dirlo: volume e peso la “battezzano” come macchina da studio, ma se si è dotati di ferrea volontà e spalle buone, nulla vieta di portarsela in giro per paesaggi, tenendo in considerazione che è assolutamente necessario abbinarla ad un treppiede degno di questo nome e non una di quelle cineserie ballerine che troppo spesso girano attaccate agli zaini dei paesaggisti.

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    Come è fatta? E’ il classico cubo modulare a cui devono essere collegati i diversi accessori indispensabili al suo funzionamento: l’obiettivo, un pozzetto che rivela lo schermo di messa a fuoco, un dorso porta pellicola; nel corpo sono contenuti specchio riflettente e soffietto che serve per la messa a fuoco. Sulla destra della fotocamera c’è la grande leva che serve per il riarmo del sistema specchio-otturatore ma, per avanzare la pellicola, occorre affidarsi ad una seconda leva che si trova sul magazzino pellicola; la messa a fuoco avviene attraverso due manopole (una per lato) che fanno avanzare un soffietto vicino al quale c’è una tabella che indica le distanze di messa a fuoco riferite agli obiettivi montanti in macchina ed il valore di compensazione da applicare in base all’estensione del soffietto; sulla parte anteriore c’è la piastra di aggancio delle ottiche (metallo puro, Deo gratias) con i collegamenti che attivano l’otturatore che, cosa che alla digital generation suonerà stranissima, è contenuto in ogni singolo obiettivo; il pulsante di scatto si trova sempre anteriormente in basso a destra ed è filettato per consentire il collegamento di uno scatto remoto. La cosa più bella, secondo me, è sul retro della macchina: il dorso rotante; essendo il formato 6×7 (o il 6X8) rettangolare, è possibile scattare foto in formato verticale od orizzontale non ruotando la fotocamera (esercizio a dir poco problematico) ma ruotando, appunto, il contenitore della pellicola. Mica male, vero? Nel mirino sono presenti due serie di linee parallele che aiutano il fotografo a individuare i bordi dell’inquadratura. Avviso ai naviganti: non si rischia di rimanere “a piedi” perché è tutto meccanico, non servono batterie, tant’è vero che non è compreso nemmeno l’esposimetro; a tal proposito consiglio caldamente di acquistarne uno esterno, magari che disponga di misurazione spot: io l’ho trovato in Giappone (!!!), un Sekonic L-408 Multimaster usato ma tenuto maniacalmente (credo di aver trovato uno più “sofistico” di quanto lo sia io…).

    Impressioni d’uso? Forse è un po’ presto, ho fatto solo un paio di rullini di prova, ma la sensazione che si ricava dall’utilizzo della RB67 è piacere puro: l’iniziale idea di complessità viene ben presto sostituita dalla soddisfazione di usare una macchina ben studiata in tutte le sue componenti e rapidamente si prende dimestichezza con la necessità di usare due leve per avanzare la pellicola ed armare l’otturatore, da subito ci si abitua alle manopole di messa a fuoco e, dopo un po’ di uso, si è letteralmente entusiasti del gigantesco schermo di messa a fuoco e del dorso portapellicola che ruota. L’otturatore non è rumorosissimo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare considerata la quantità di vetro e metallo che si muove al suo scatto: diciamo che si fa notare.

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    E le foto? Eh, per quelle servirebbe prima di tutto un fotografo serio, sicuramente non io. Comunque ho fatto alcune scansioni digitali di scatti di prova (con pellicola Kodak Portra 160 e 400) e devo dire che…

    Beh, date voi stessi un’occhiata.

    viale-po