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  • Il “Campo Giochi” all’infrarosso, lo scatto passo dopo passo

    Il “Campo Giochi” all’infrarosso, lo scatto passo dopo passo

    La fotografia digitale all’infrarosso è oramai alla portata di tutti: i costi decisamente contenuti per l’attrezzatura e i tutorial pubblicati su internet da fotografi specializzati, aiutano ad affrontare questa tecnica fotografica con relativamente pochi patemi d’animo. Intendiamoci: alcuni “segreti” vengono comunque gelosamente custoditi, ma i passi base per ottenere e post-produrre dignitosamente una foto all’infrarosso sono di pubblico dominio.

    Io non sono affatto uno specialista di questa tecnica, anzi; però ho deciso ugualmente di cimentarmi perché mi offre la possibilità di fotografare ciò che preferisco  – paesaggi – in momenti del giorno in cui gli altri fotografi rientrano nelle bare, rifuggendo la dura ed impietosa luce della metà giornata quasi fossero vampiri. Ovviamente scherzo, su vampiri e bare, ma non sul discorso illuminazione: è ormai noto che la fotografia all’infrarosso ha bisogno di una elevata illuminazione e che, proprio per le sue caratteristiche, i risultati migliori si ottengono scattando nelle ore centrali della giornata e non all’alba o al tramonto come nelle foto di paesaggio “tradizionali”. In pratica è una tecnica fotografica che permette ai patiti di non fermarsi mai e scattare anche nei tempi normalmente considerati “morti” a causa della luce sfavorevole.

    In questa sede non scriverò di post produzione: esistono svariate scuole di pensiero, tutte validissime, ma sarebbe necessario prima di tutto conoscerne i contenuti (tutti i contenuti e non solo spizzichi e bocconi e, se qualcuno si sente tirato per le orecchie, beh la mia intenzione è proprio quella) e poi parlarne diffusamente. Magari ci ritorneremo. Qui desidero semplicemente raccontarvi come effettuo lo scatto, con quale attrezzatura e il procedimento.

    Prima di tutto la fotocamera: ho acquistato (nuova perché sono decisamente pignolo, con sconfinamenti nella maniacalità) una Nikon D90, ad un prezzo molto conveniente ma, volendo, si possono trovare ottime macchine usate a prezzi ancora migliori, vista la non più verde età del modello in questione. L’ho fatta successivamente  modificare per adattarla alla fotografia all’infrarosso presso un laboratorio di fiducia. Ricordate sempre che queste modifiche sono praticamente irreversibili; quindi ricorrete ad esse solo se siete convinti di quello che state facendo, perché dopo la stessa fotocamera non potrà più essere utilizzata per scattare foto “normali”.  Comunque, dicevo, procedo in questo modo:

    1. scelgo il luogo dove scattare le foto, preferibilmente in posti in cui sia presente una discreta vegetazione (alberi, cespugli, prati, anche coltivazioni) e, ancor meglio, un corso o uno specchio d’acqua; come noto, nelle fotografie IR, la vegetazione apparirà molto chiara, quasi bianca mentre invece cielo ed acqua verranno resi molto scuri, creando un contrasto di notevole intensità; da ricordare che, proprio grazie alle sue peculiarità, questa tecnica eliminia notevolmente la foschia atmosferica, quindi niente paura se, al momento di uscire per fotografare, l’atmosfera si presenta di quell’azzurrognolo fosco che fa passare la voglia di scattare foto;
    2. scelgo, come detto, una giornata soleggiata; se poi sono presenti in cielo nuvole e nuvolette, per me è il massimo; il sole cerco di averlo lateralmente, per motivi che trovo offensivo spiegarvi;
    3. piazzo il treppiede perchè, oltre a garantire stabilità alla fotocamera ed evitare il mosso, mi consente di mettere a fuoco con discreta precisione e prendendomi tutto il tempo che mi serve per inquadratura e scatto;
    4. come obiettivo preferisco usare un grandangolare, per enfatizzare soprattutto il cielo, visto che nella foto ad infrarossi questo appare, come detto, scuro ed il contrasto con le nuvole dona drammaticità ed un effetto che amo tantissimo; più precisamente mi affido allo zoom Nikon 10-24 mm che è nel formato DX adatto alla D90 (corrisponderebbe, grosso modo, alle focali 15 – 36 mm sul formato 35 mm).
    5. utilizzo sempre il telecomando (nel mio caso un Nikon ML-L3 ad infrarossi) per la solita questione di evitare il mosso;
    6. compongo l’inquadratura e metto a fuoco manualmente utilizzando il live view sullo schermo LCD della fotocamera e tengo contemporaneamente oscurato il mirino con l’accessorio apposito (o anche con un pezzo di nastro adesivo scuro) per evitare infiltrazioni indesiderate di luce; considero questo accorgimento di utilizzare il live view abbastanza importante, perché ho notato che, dopo la modifica alla fotocamera, la precisione dell’autofocus lascia un pochino a desiderare. Occorre tenere presente che, vista la elevata luminosità presente in quelle ore della giornata, non è proprio semplicissimo comporre e focheggiare utilizzando lo schermo della fotocamera, a causa dei riflessi; ecco perché dicevo prima che cerco di utilizzare sempre il treppiede: mi consente di avere entrambe le mani libere ed usarle per cercare di schermare dalla luce l’LCD o, meglio ancora, di usare un accessorio molto valido che si comporta come un mirino da applicare sullo schermo stesso della macchina fotografica, lo Hoodman Loupe (ne esistono differenti versioni e modelli); prossimamente voglio esagerare e provare ad utilizzare un piccolo schermo LCD da 7 pollici, opportunamente schermato, che si collega alla fotocamera con cavo USB: vi saprò dire;
    7. generalmente uso un diaframma generoso, per cercare di avere una buona leggibilità su tutto il fotogramma, solitamente f/11;
    8. eseguo un primo scatto e, se in visualizzazione noto che le aree della vegetazione sono troppo chiare, al limite del “bruciato”, rieseguo lo scatto compensando l’esposizione di 1 o anche 2 stop; poi, sullo schermo del computer, mi renderò meglio conto di quale fotogramma sia meglio utilizzare ma, almeno, ho materiale su cui posso lavorare.

    Tutto qui, nulla di trascendentale. Solo, come sempre, qualche accorgimento tecnico, molta attenzione e tanta calma, non stiamo fotografando una gazzella da immortalare al volo altrimenti fugge.

    Ah, e perché il “Campo Giochi” del titolo? E’ presto detto: è uno scherzo fra amici pescatori; si tratta di un una sezione di canale di irrigazione e bonifica della Bassa padana il cui vero nome è Corte Pizzo, decisamente accogliente, in cui ci troviamo spesso con la scusa di una pescata in compagnia (pesce tassativamente rilasciato in buona salute alla fine, ci tengo a dirlo) ma con il vero fine di una grigliata all’aperto, con tutto ciò che ne consegue. E poiché in autunno ed inverno il canale viene prosciugato quasi completamente e la vegetazione non è più ovviamente rigogliosa, l’unico periodo buono per fotografarlo è nella stagione calda, caldissima.

  • Nikon S3, classe e telemetro

    Nikon S3, classe e telemetro

    Il modello Nikon S3 Year 2000 Millennium (Y2K) è una riproduzione della fotocamera a telemetro Nikon S3, presentata nel marzo 1958. È stata prodotta in quantità limitata per commemorare l’anno 2000. L’S3 Y2K è stata prodotta il più possibile identica all’originale Nikon S3 ad eccezione di dettagli molto piccoli, per uniformarsi alle moderne pratiche operative della fotocamera, compresa la variazione dell’indicazione dell’esposizione da “20” a “24” e l’indicazione della sensibilità del film calibrata in ISO invece di ASA . Nel ripresentare la S3, Nikon fece le cose in grande stile: creò nuovamente stampi e matrici di produzione ed apportò altri miglioramenti, come ad esempio la manovella di riavvolgimento riprogettata e la copertura anteriore in alluminio anziché in plastica.

    Nikon lanciò la sua linea di prodotti a telemetro 35 mm con la Nikon I presentata nel 1948, che si è successivamente evoluta in M e S, e la serie a telemetro è stata considerata come linea di fotocamere principali fino alla uscita e alla diffusione delle fotocamere reflex a obiettivo singolo. La serie S è stata il precursore della Nikon F ed era molto apprezzata come macchina fotografica classica.

    Nikon S3 era un modello relativamente recente della serie S, dotato di un telemetro con il primo mirino 1: 1 a grandezza naturale al mondo per obiettivi con lunghezza focale di 35 mm. La Nikon nella S3 Y2K ha riprodotto con precisione non solo il mirino a grandezza naturale da 35 mm, ma anche il riduttore di regolazione della lunghezza focale disposto nella parte superiore destra del corpo, e il suono silenzioso e dell’otturatore, chiamato ‘sussurro’ a quei tempi.

    Nel 2000 Nikon decise di produrre nuovamente la S3 in edizione limitata, per essere venduta solo in Giappone: gli appassionati dovettero fare i salti mortali, all’epoca, per poter avere uno degli 8.000 set prodotti, set composti appunto dalla S3, da un nuovo obiettivo Nikkor-S 50mm f/4 ed una custodia in vera pelle.

    L’obiettivo standard Nikkor S 50 mm f / 1.4 era una riproduzione dell’obiettivo incorporato nella versione Olympic, noto come il tipo “serie successiva” interamente cromato. Era un obiettivo multistrato proprio come gli obiettivi Nikkor attualmente disponibili per garantire un più alto grado di riproducibilità del colore.

    La Nikon S3 utilizza l’innesto a baionetta tipo S. Questo tipo di attacco è compatibile con tutti gli obiettivi per macchine a telemetro Nikon, ma non è compatibile con l’attacco F, introdotto nel 1959 e tutt’ora in uso (cosa che personalmente adoro).

    Nel giugno 2002, la Nikon S3 Limited Edition Black è stata prodotta e commercializzata in una quantità limitata di 2.000 riprogettando il modello S3 Y2K con una finitura nera.

  • Pellicola Rollei Infrared

    Pellicola Rollei Infrared

    Tempo di esperimenti (e quando mai finiscono, gli esperimenti?) con una pellicola particolare, la Rollei Infrared 400 iso 35 mm, pellicola pancromatica in bianco e nero con sensibilità all’infrarosso fino a 820 nanometri (brevemente nm) se si utilizza l’apposito filtro.

    Per me si tratta di una prima assoluta in quanto, fino ad ora, ho scattato fotografie all’infrarosso utilizzando una macchina digitale Nikon D90 privata del filtro deputato, appunto, al blocco delle radiazioni infrarosse ed ho voluto provare a fare qualcosa di diverso, con un metodo di scatto che non richiede la modifica praticamente irreversibile di una fotocamera digitale ma unicamente l’utilizzo di un rullino per infrarosso su  una macchina analogica normale (io ho usato una Nikon F100) e dei filtri dedicati, il filtro rosso R60 oppure il filtro rosso scuro R72, nella versione circolare da avvitare sull’obiettivo, nel mio caso un Nikkor AF-S 20 mm f/1.8 G ED.

    Tornando alla pellicola, questa, al contrario di altre pellicole specifiche per infrarosso, può essere caricata sulla fotocamera in condizioni di semioscurità, senza pregiudicare l’esposizione dei primi fotogrammi del rullino (la Kodak, ammesso di riuscire a trovarla ancora, richiede di essere caricata in assoluta oscurità). Anche lo scarico è sufficiente che avvenga in condizioni di luce attenuata, permettendo comunque di vedere ciò che si sta facendo.

    La Rollei Infrared può essere utilizzata anche come una normale pellicola in bianco e nero e restituisce delle foto con grana molto fine e ottimi dettagli in luci ed ombre, ma il suo indirizzo ideale è l’infrarosso, ottenibile applicando il filtro rosso scuro R72, che è decisamente opaco (approssimativamente si perdono 4 o 5 stop a filtro montato) e che obbliga a lunghe esposizioni e di conseguenza rende indispensabile l’utilizzo di un treppiede e dello scatto remoto. Praticamente, in pieno sole estivo e con un filtro Hoya R72 montato, ho visto che l’esposizione di 1 secondo è un buon punto di partenza ma consiglio caldamente di scattare in manuale e provare ad effettuare almeno un altro paio di scatti con tempi raddoppiati progressivamente; si dovrà scartare qualcosa nelle pose risultanti, ma ci sono ottime probabilità di portare a casa almeno uno scatto correttamente esposto.

    Per ottenere questa serie di foto ho seguito i seguenti passi, se può interessare:

    • ho messo la macchina sul treppiede con lo scatto remoto installato ma senza montare il filtro R72
    • ho scelto l’inquadratura che mi interessava ed ho messo a fuoco fidandomi dell’AF della macchina
    • ho messo la fotocamera in modo di esposizione manuale e fuoco manuale per non modificare quello preventivamente fissato
    • ho installato il filtro R72 ed accettato la misurazione dell’esposizione che mi suggeriva la macchina
    • ho effettuato il primo scatto con l’ausilio dello scatto remoto (sulla Nikon F100 non c’è la possibilità di scattare alzando preventivamente lo specchio ma, se vi è possibile, utilizzate assolutamente questa opzione)
    • ho successivamente effettuato altri due scatti, raddoppiando il tempo di scatto iniziale suggerito di 1 secondo.

    Se i soggetti delle foto vi dicono qualcosa, avete ragione, non ho avuto molta fantasia: sono tornato sui luoghi di “delitti” precedenti scattati in infrarosso con la digitale ma trattandosi, come detto, di esperimenti, non sono andato troppo per il sottile con l’originalità.

    Un ultima raccomandazione: sviluppate (se siete bravissimi) o fate sviluppare la pellicola esposta il più rapidamente possibile.

     

  • Il ponte di campagna

    Il ponte di campagna

    Le opere di bonifica hanno rappresentato nei decenni e rappresentano tutt’ora, un importantissimo processo di trasformazione del territorio italiano e di quello Padano in particolare. In diversi momenti storici, partendo dall’epoca Romana per arrivare fino al periodo fascista, sono stati pianificati ed attuati moltissimi interventi di regolamentazione delle acque per attivare un risanamento dei territori ed ottenere maggiori estensioni di terreni coltivabili. Tralasciando gli inevitabili riflessi sociali che queste gigantesche opere determinarono, sono tutt’ora evidenti i risultati tangibili che esse produssero: una rete di migliaia di chilometri di canali di svariate dimensioni e destinazioni, ferrovie, corti coloniche, strade e carraie, per non parlare degli impianti idrovori che si vedono un po’ ovunque.

    Proprio la molteplicità delle opere e come queste si sono gradualmente “integrate” con il territorio, costituiscono una ghiotta occasione fotografica: ci sono, come detto, le gigantesche e architettonicamente interessanti idrovore di sollevamento delle acque in prossimità del Po e dei sui affluenti principali; ci sono carraie che costeggiano i canali che sono diventate habitat di numerosissime specie animali e vegetali; ci sono gli argini, ci sono gli invasi (lanche) che consentono l’espansione relativamente tranquilla delle piene del Po, ci sono i pioppeti che sono ormai una costante nei territori ricchi d’acqua.

    E poi ci sono i piccoli canali di irrigazione, un gradino sopra nella gerarchia ai semplici fossi, nascosti nella campagna, lontani dalle strade di passaggio oppure vicinissimi ma occultati dalla vegetazione, che offrono scorci a volte impensati e sorprendenti, magari arricchiti da un ponticello ad arco in pietra, che sono per chi ama fotografare come il miele per gli orsi.

    Ne ho trovato uno in particolare che mi affascina e che è entrato di diritto negli appunti fotografici dei luoghi da visitare spesso, in diverse stagioni e in diverse condizioni atmosferiche. Intanto ho fatto i primi scatti. Mica facile rendergli giustizia ma, come al solito, cerco di ottenere il meglio che posso dalle mie scarse attitudini fotografiche.

     

     

  • Yashica FX3 Super 2000, l’inizio

    Yashica FX3 Super 2000, l’inizio

    La Yashica fu fondata in Giappone nel 1949 e, insieme a Nikon e Canon, è uno dei più antichi e prestigiosi nomi della fotografia del Sol Levante. In un primo tempo la produzione fu incentrata su apparecchi biottici e, nel 1959, iniziò anche la fabbricazione di reflex a lente singola. Nel 1973 mise in atto una collaborazione con la tedesca Contax per la creazione della reflex RTS, ottenendo in cambio il diritto di utilizzare i prestigiosi obiettivi Zeiss, grazie alla progettazione di una baionetta di innesto comune ad entrambe le marche. La produzione delle nuove reflex giapponesi con baionetta Contax/Yashica (brevemente C/Y) fu avviata nel 1975 con il modello FX-1 a cui seguirono altri modelli, fra i quali, nel 1979, la fotocamera entry level della serie, la FX 3. Come già detto altrove, occorre fare mente locale sul concetto di entry level dell’epoca: contrariamente a quanto accade ai nostri giorni, le macchine fotografiche base erano prive di alcuni automatismi ed accessori presenti sui modelli di fascia più elevata, ma le caratteristiche di affidabilità, qualità ed ergonomia erano le medesime. La Yashica FX-3 divenne ben presto un modello richiestissimo e la sua produzione si protrasse per circa 23 anni, mantenendo le sue peculiarità, se si escludono alcuni aggiornamenti minori, l’ultimo dei quali nel 1986 che produsse la versione Super 2000, che deve il suo nome al tempo di scatto minimo disponibile di 1/2000 rispetto al 1/1000 del modello originale e annovera l’aggiunta di un grip per facilitarne l’impugnatura.

    A mio giudizio (ma non solo mio, visto il successo ultra ventennale) è una reflex dall’aspetto piacevole, compatta (135x85x50 mm) e leggera (poco meno di 500 grammi il solo corpo). Decisamente robusta a livello meccanico, la FX 3 Super 2000 non lo è altrettanto come corpo, in cui viene utilizzata parecchia plastica, seppure di ottima qualità. Il dorso è incernierato al lato destro del corpo stesso e si apre tirando verso l’alto il pomellino di riavvolgimento del rullino. Decisamente semplice caricare la pellicola: si inserisce la linguetta del rullino nella fessura del rocchetto sulla destra, la si mette leggermente in tensione con la leva di carica e agendo successivamente sulla manovella di riavvolgimento e, dopo la chiusura del dorso, si scatta fino a raggiungere il numero 1 sul contascatti. Il mirino della FX-3 mostra il 92% dell’inquadratura ed è decisamente e piacevolmente spartano: al suo interno, infatti, ci sono solo tre led posti in verticale sulla destra che mostrano la sovraesposizione (un “+” rosso), la corretta esposizione (un pallino verde) e la sottoesposizione (un “–“ rosso). La messa a fuoco (manuale) avviene a mezzo di telemetro con immagine spezzata al centro e un anello di microprismi.  L’otturatore è completamente meccanico, un Copal Square a lamelle metalliche con tempi di scatto da 1 secondo a 1/2000 di secondo e posa B e funziona anche senza pile, che sono però presenti nel fondello della fotocamera e servono solo al funzionamento dell’esposimetro; originariamente si utilizzavano le SR44 (ossido d’argento) ma, essendo ormai introvabili o quasi, vanno benissimo due LR44 alcaline da 1,5V (o una CR2 al litio da 3V). L’esposimetro si attiva con una leggera pressione del pulsante di scatto (che presenta la filettatura per lo scatto flessibile) e la corretta esposizione si presenta, come detto, quando il solo led verde è acceso; se contemporaneamente si accende anche uno dei led rossi, significa che c’è una differenza di esposizione di ½ stop; la lettura è di tipo TTL  e la sensibilità ISO va da 25 a 3200. Sul frontale della FX 3 è presente la levetta che aziona l’autoscatto che ha la notevole prerogativa di pre-ribaltare lo specchio, garanzia di riduzione delle vibrazioni (prendere buona nota).

    L’obiettivo standard commercializzato con la FX 3 Super 2000 è lo Yashica ML 50 mm e massima apertura f/1,9. Per concludere: la FX 3 si dimostra veramente piacevole da usare, grazie alla sua leggerezza ed al suo bilanciamento e dopo pochi minuti si ha l’impressione di averla usata da sempre (sarà anche perché per me è stato veramente così, essendo stata la mia prima fotocamera), pur con tutti i suoi limiti, come la poca rapidità del sistema a collimazione di led o la ghiera dei tempi un po’ dura da azionare con un dito solo, per non parlare dell’otturatore dal suono piacevole ma decisamente “importante” e quindi non proprio ideale per la foto di strada, se si vuole passare inosservati. Per contro, la possibilità di poter montare gli ottimi obiettivi Carl Zeiss T* è un plus non indifferente e la mancanza di automatismi “costringe” a concentrarsi su quello che più conta: il soggetto della fotografia. Allegati a questo testo, ci sono alcuni scatti.

  • Come ritrovare una vecchia amica

    Come ritrovare una vecchia amica

    No, non è una puntata di una di quelle trasmissioni televisive che si adoperano per ritrovare persone scomparse. E’ l’esternazione della felicità di aver ritrovato una vecchia conoscenza, uno di quegli oggetti (termine un po’ freddo) che ci hanno accompagnato nel passato e di cui si avverte un po’ la nostalgia. Avete presente quando lo squalo individua una preda ed inizia a compiere giri concentrinci sempre più stretti fino a che raggiunge il suo obiettivo? Bene, mi sono comportato allo stesso modo con la Yashica FX3 Super 2000: ho continuato a spulciare le vendite on-line finché ho individuato ed acquistato ciò che volevo. Un venditore giapponese (che Dio benedica la precisione nipponica e la cura con cui conservano le fotocamere) aveva giusto quello che cercavo con, in più, l’obiettivo commercializzato a suo tempo in kit, il 50mm f/1.9 sempre Yashica. E, nel giro di una decina di giorni, con un occhio al calendario e l’altro al sito di tracking delle spedizioni, ho ricevuto un esemplare di quella che è stata la mia prima macchina fotografica. Per di più in condizioni ottimali. Poi c’è scappato anche un 20mm f/3.8 Cosina/Contax, giusto per essere un po’ più sul pezzo in argomento di paesaggi, ma lì è stata colpa del venditore che ha insistito per farmelo acquistare…

    Giusto il tempo di arrivare a casa, spacchettare un paio di rullini che avevo già tolto dal frigorifero (letteralmente) per l’evento e via a fotografare nella campagna circostante, un po’ per comodità e un po’ perché c’erano alcune situazioni interessanti che non ho voluto fotografare in digitale ma che ho deciso di “conservare” per fare il test al nuovo acquisto. Intendiamoci: niente opere d’arte, avete sbagliato fotografo. Solo alcuni scatti in libertà, mi verrebbe da dire in scioltezza, con le dita che trafficavano con esperienza sui tasti già noti e il mezzo sorriso da deficiente stampato in volto per la felicità.

    Alla fine, nel giro di pochi giorni, ho scattato due rullini negativi a colori di Kodak Portra 160 (foto con watermark in nero) e un rullino di diapositive Fuji Velvia 100 (foto con watermark in bianco). I risultati, un po’ per le caratteristiche intrinseche di queste due pellicole e anche per i diversi momenti di scatto, sono ovviamente eterogenei e come tali ve li propongo.

    In questo testo (“Yashica FX3, l’inizio”) se vi interessa, potrete leggere un po’ di storia della fotocamera. Per quel che mi riguarda, ho già riservato un posto d’onore alla Yashica FX3 vicino alle mie “vecchiette” Nikon, perché i ricordi vanno trattati bene. E’ tutto ciò che ci resta dei momenti felici passati.

  • Nikon FM3a – Ne resterà solo una

    Nikon FM3a – Ne resterà solo una

    La Nikon FM3a è probabilmente l’ultima fotocamera reflex con messa a fuoco manuale ad essere stata realizzata. E altrettanto probabilmente è anche una delle migliori mai prodotte. Questa macchina fotografica ha una storia interessante. E’ l’ultima reflex meccanica realizzata da una grande casa produttrice ed è l’unica ad essere stata rilasciata in questo secolo: la sua progettazione è iniziata nel 1998, i prototipi pre-produzione sono stati presentati nel 2000 e la Nikon FM3a è stata lanciata nel 2001; è rimasta sul mercato solo per cinque anni e la sua produzione è cessata nel gennaio del 2006.  Come detto questa è stata l’ultima macchina fotografica meccanica di Nikon perché la FM10 (unica fotocamera analogica a listino fino a poco tempo fa insieme alla ammiraglia 35mm F6, ancora presente) è stata progettata e prodotta da Cosina su licenza Nikon. Il lignaggio della FM3a è riconducibile a tre linee Nikon: la gloriosa serie F, la serie FE in cui Nikon ha progressivamente introdotto tutte le funzioni elettroniche e di automazione e la serie FM che è rimasta fedele alla natura meccanica (e di assoluta robustezza) dopo che la serie F ha abbracciato elettronica e motorizzazione con la F4.

    Otturatore ibrido – Ciò che rende la FM3a piacevolmente speciale non è tanto la sua natura meccanica ma il fatto che, a quanto ne so, è l’unica fotocamera con controllo dell’otturatore sia meccanico che elettronico con la possibilità di utilizzare tutte le velocità di otturazione previste anche in mancanza della batteria nella fotocamera (a proposito sono necessarie due LR44 alcaline a bottone, visto che le originarie SR44 non sono più prodotte). Tanto per fare un esempio banale: la Leica M7 non è in grado di farlo senza batterie e il suo otturatore può funzionate solo a 1/60mo o 1/125mo di secondo. L’otturatore della FM3A può arrivare fino ad 1/4000mo di secondo meccanicamente, partendo dalla posa B (bulb) senza batterie. Quando invece nella fotocamera sono presenti le batterie e si fotografa utilizzando la modalità a priorità di diaframma, si può scattare utilizzando l’intera gamma di otturazione, ipoteticamente anche a 1/875mo di secondo se la misurazione esposimetrica lo richiede.

    Misurazione, indicatori e lenti – La FM3a è decisamente analogica. Il sistema di misurazione è a media ponderata centrale, ma la chicca è come questa misurazione viene visualizzata: tramite una lancetta aghiforme che indica in modo continuo quella che dovrebbe essere l’esposizione corretta secondo la fotocamera. Più analogico di così! La fotocamera è in grado di leggere gli indicatori DX sui rullini della pellicola per il valore ISO oppure consente di impostarlo manualmente. Tutti gli obiettivi Nikon prodotti dopo il 1977 possono essere utilizzati sulla FM3a ad eccezione dei G mentre le lenti pre AI possono essere utilizzate con il metodo stop-down. Interessante e non scontato su una fotocamera meccanica il pulsante AE per il blocco dell’esposizione.

    Costruzione – L’obiettivo di Nikon relativamente alla FM3a era di costruire una fotocamera che potesse sopportare anni di uso costante. Proprio per questo realizzò la scocca in ottone, ma non solo. Durante lo sviluppo del progetto, Nikon, desiderosa di testare la fotocamera in situazioni reali e condizioni estreme, inviò i prototipi in Antartide per quattro mesi e ne ricavò informazioni  preziose che influenzarono la costruzione finale. E’ vero che il corpo non è tropicalizzato come le attuali fotocamere pro, ma il corpo della FM3A è in grado di gestire le condizioni estreme molto bene.

    Funzionamento – E’ un piacere usare la FM3a. E’ robusta ma non pesante ed il vostro collo vi ringrazierà a fine giornata. La fotocamera si attiva arretrando un poco la leva di avanzamento della pellicola; diversamente non è possibile attivare l’otturatore e nemmeno effettuare le misurazioni esposimetriche, con il risultato di preservare la batteria (per l’esposimetro) e di non effettuare scatti accidentali. L’avanzamento della pellicola è rapido e sicuro ed offre quella lieve resistenza che, dal punto di vista personale, è rassicurante. Stesso discorso per l’otturatore: non è morbidissimo ma considero anche questo un pregio. Discorso diverso per il selettore delle sensibilità ISO: è vero che la sua configurazione mette al riparo da modifiche accidentali che rovinerebbero le fotografie, ma è effettivamente un poco difficoltoso da utilizzare. Essendo una fotocamera ad esposizione automatica con priorità di diaframmi è possibile compensare l’esposizione di + o – due stop, con incrementi di 1/3 di stop. E, per le situazioni limite, sul retro c’è il pulsante AE di blocco dell’esposizione. Sul davanti c’è il tasto per l’anteprima della profondità di campo e un timer meccanico (anche se può far scattare l’otturatore elettronico in modalità AE). Inoltre è da segnalare che Nikon ha inserito anche una leva per le esposizioni multiple. Il mirino è molto luminoso ed il sistema di messa a fuoco è con telemetro graduato con immagine spezzata.

    Conclusione – La FM3a è stata un risultato notevole per Nikon. Quello che sorprende è che la casa nipponica abbia investito un sacco di risorse per la ricerca e lo sviluppo di questa fotocamera (e, soprattutto, dell’otturatore ibrido) quando era chiaro i giorni delle reflex analogiche erano un po’ meno luminosi. Oltre a questo non è andata al risparmio con i materiali costruttivi, con il risultato di ottenere una fotocamera che non sfigurava affatto al cospetto di “colleghe” decisamente più considerate (qualcuno ha detto Leica?).

  • Nikkormat, “la Nikon F dei poveri”

    Nikkormat, “la Nikon F dei poveri”

    Negli anni ‘60 iniziò la fortuna delle fotocamere reflex a discapito della diffusione di quelle a telemetro. Una spinta non indifferente la diede l’uscita sul mercato della Nikon F nel 1959, che segnò una vera e propria pietra miliare nel mondo della fotografia. La F divenne ben presto l’ammiraglia di casa Nikon, anche in virtù delle sue caratteristiche professionali. E lo restò anche per lungo tempo, considerato che fu prodotta in circa un milione di esemplari. Unico neo (comune anche alle DSLR professionali odierne) era il costo elevato, fatto che convinse i vertici industriali della casa giapponese a commercializzare un prodotto che fosse più alla portata di chi non desiderava o non poteva svenarsi per una fotocamera. Venne prodotta allora la Nikkorex F che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto costituire il secondo corpo per i professionisti e una macchina appetibile per tutti. In realtà questa serie di fotocamere non ottenne il successo sperato e la loro produzione venne abbandonata all’inizio degli anni ‘70 in favore della serie Nikkormat che, di fatto, ottenne nelle sue varie versioni un successo non indifferente.

    La prima Nikkormat ad essere presentata fu la FT (sul mercato giapponese comparve con il nome di Nikomat); si trattava di una fotocamera con un corpo decisamente robusto, disponibile sia nella versione nera che cromata, fu prodotta nel corso del biennio 1965-1967 ed offriva prestazioni decisamente interessanti: tempi di scatto da 1 secondo ad 1/1000 di secondo, posa B, autoscatto, esposimetro TTL, possibilità di bloccare lo specchio, pulsante per controllare la profondità di campo. Nel 1967 iniziò la produzione della Nikkormat FTn, versione evoluta della FT, che aggiungeva, fra le altre cose, la scala dei tempi visibile nel mirino e la lettura esposimetrica a prevalenza centrale (semispot); la FTn fu prodotta fino al 1975, anno in cui fu presentata la FT2 con ulteriori miglioramenti, inclusa l’aggiunta della slitta portaflash.

    Giova ricordare che fino al 1977 le lenti Nikon non effettuavano automaticamente l’accoppiamento con l’esposimetro e quindi era necessario “istruire” il corpo macchina relativamente alla apertura massima disponibile sull’obiettivo che si stava montando. Per questo motivo sugli obiettivi era presente una piccola “V” metallica e quando si innestava l’ottica sulla macchina fotografica era necessario far entrare il piccolo perno presente sul bocchettone della stessa nella scanalatura della linguetta dell’obiettivo; era poi necessario ruotare la ghiera dei diaframmi prima in direzione della massima chiusura disponibile e poi verso quella minima. Questa procedura un poco complicata fu sostituita nel 1977 dal sistema AI (Automatic Indexing) che permise a Nikon di togliere il perno dai corpi delle fotocamere e di produrre gli obiettivi senza la caratteristica linguetta. Fu proprio nel 1977 che apparve l’ultima delle Nikkormat, la FT3, che poteva beneficiare di questa evoluzione.

    Come detto, la serie Nikkormat fu presentata anche per offrire al pubblico un prodotto più economico rispetto alle macchine professionali della serie F. A causa di ciò la Nikkormat venne spesso definita come “the poor man’s Nikon F” ovvero “la Nikon F dei poveri”. Niente di più sbagliato: le Nikkormat hanno come caratteristica principale una robustezza notevole, tanto è vero che a distanza di anni si trovano ancora in circolazione modelli perfettamente funzionanti e intatti come la FT2 che ho trovato io e mi risulta che all’epoca il distributore italiano offrisse per queste fotocamere addirittura la garanzia a vita! Dovrebbero essere macchine fotografiche entry-level, d’accordo, ma stiamo parlando di una macchina entry-level di più di 40 anni fa e la cosa si nota quando la maneggiamo: il corpo macchina è interamente in metallo, il mirino è decisamente luminoso, l’otturatore Copal S sul piano focale che arriva ad 1/1000 è più che sufficiente nella maggior parte delle situazioni, ha la possibilità di verificare attraverso l’apposito pulsante la effettiva profondità di campo, può scattare doppie esposizioni ed ha il blocco dello specchio. Tutte queste caratteristiche insieme sono decisamente da fotocamera di fascia medio-alta. Un vantaggio non indifferente è dato poi dalla non indispensabilità dell’alimentazione: la batteria c’è ma serve solo per il funzionamento dell’esposimetro, la macchina può scattare sempre e comunque. Nulla a che vedere con la bramosia energetica delle moderne macchine fotografiche, mirrorless in testa.

     

  • Sabbioneta (frammenti in 35mm)

    Sabbioneta (frammenti in 35mm)

    E’ decisamente vero che la fotografia analogica è sinonimo di lentezza, nel senso più positivo del termine. E’ passato più di un anno da quando ho accompagnato un gruppo di amici a visitare e fotografare Sabbioneta, la Piccola Atene della Bassa, ma solo in questi giorni ho dato un’occhiata con calma a quei negativi ed ho effettuato la scansione di quelli che mi interessavano.

    Quel pomeriggio ho deciso di fare lo strano e anziché portarmi tutto l’armamentario digitale, mi sono limitato ad una sola fotocamera analogica, la Nikon F6, ed un rullino 35 mm, un Kodak Portra 400. Non è stata una gran scelta, quella del rullino dico, perché 400 iso quel grigio pomeriggio d’autunno erano decisamente pochi, soprattutto nelle penombra delle strade, ma mi sono arrangiato cercando di fare meno danni e meno mosso possibile. Ed ho anche cercato di concentrarmi sui particolari invece di dedicarmi alle ampie vedute (anche perché, quando serve, il decentrabile per l’architettura lo lasci sempre a casa).

    Ho salvato sei fotogrammi di quel pomeriggio; se non avessi lavorato parecchio per fare le scansioni dei negativi, probabilmente ne avrei salvato solo un paio. Ma tant’è.

     

     

  • Nikon F3

    Nikon F3

    Era settembre del 1971 quando Nikon presentò la F2; questo modello di fotocamera fu subito molto apprezzato ma non mancarono anche le critiche, soprattutto da parte di chi lo considerava un modello “conservativo” che migliorava solo alcune caratteristiche del precedente modello F. Inoltre, come detto, era dal ’71 che Nikon non proponeva una nuova fotocamera professionale. Tenendo conto di queste osservazioni, la sezione sviluppo di Nikon decise di studiare un nuovo modello di macchina fotografica che introducesse dei miglioramenti significativi e così venne ideata la Nikon F3. Nel progetto vennero individuati due punti fondamentali da studiare: l’esposizione automatica e la capacità di gestire accuratamente i tempi lunghi di esposizione; fino ad allora non vi era state richieste di introdurre la funzione di esposizione automatica ma, nonostante ciò, i tecnici della Nikon Corporation (allora Nippon Kogaku K. K.) decisero di integrare la funzione AE con la funzione dell’otturatore a controllo elettronico. Erano consapevoli che, all’inizio, questa funzione sarebbe stata accolta con freddezza ma erano comunque convinti che in futuro essa sarebbe diventata una caratteristica importante, anche sulle fotocamere professionali. Già nel progetto della F2, seppure con modalità differenti, si era cercato di introdurre sia la funzione di esposizione automatica che l’utilizzo dei tempi lunghi e così queste due idee furono riprese nel progetto della F3. Nel 1973, completato il progetto base, iniziò l’effettivo sviluppo della Nikon F3: fu mantenuto il mirino intercambiabile già utilizzato sulla F2; furono adottate nuove tecnologie come il controllo elettronico del piano focale dell’otturatore; così come con la Nikon F2 furono incorporati nel mirino Photomic il TTL ed il circuito AE; venne sviluppano il sistema elettromagnetico di scatto e così via. Insomma, molte problematiche erano state risolte ed era pronta una Nikon F3 Photomic AE, solida, ben concepita, degna di succedere alla fortunatissima F2, ma… non fu mai messa in produzione! Vennero riscontrati problemi con la misurazione TTL che falliva con alcuni tipi di mirini, quali il Waist-level finder e l’Action finder ed i tecnici Nikon non erano in grado di risolvere il problema. Fu deciso allora di orientarsi verso una nuova tecnologia: la misurazione TTL non dal mirino ma dal corpo macchina. Questa soluzione era già stata studiata in passato, ma gli effetti collaterali ( oscuramento del mirino, zona d’ombra, ecc.) non ne avevano permesso la realizzazione. Occorreva una nuova soluzione e si pensò allo specchio pin-hole. Dopo anni di studi i tecnici giapponesi avevano messo a punto uno specchio con dei piccoli buchi che non disturbavano la riflessione; la luce che passava attraverso questi piccoli fori veniva deviata da uno specchio inferiore verso il fondo del mirror-box e da lì, attraverso una lente, concentrata sul sensore TTL. L’introduzione di questo sistema di misurazione TTL pin-hole permise la riduzione delle dimensioni del mirino, un alleggerimento globale e quindi una maggiore compattezza rispetto alla precedente Nikon F2 con conseguente… complicarsi del progetto stesso, che fu interamente rivisto e ripartì con decisione nel 1976. Nel frattempo erano state studiate, indipendentemente dal progetto F3, nuove tecnologie (controllo elettromagnetico dell’otturatore, display LCD, eccetera) e così il capo progetto F3 fu costretto a prendere una difficile decisione: ricominciare tutto da capo per includere queste nuove tecnologie. A spingere verso questa decisione fu anche l’arrivo presso la Nikon di un designer di fama come Giorgetto Giugiaro che si adoperò per dare alla F3 uno stile “internazionale”, appetibile in tutti i mercati mondiali. Giugiaro introdusse l’holding grip frontale, l’integrazione del design del blocco motore con il corpo della fotocamera e altre soluzioni stilistiche notevoli. Alla fine del 1977 il progetto arrivò all’ultima revisione, quella definitiva e, finalmente, nel 1980 la Nikon F3 venne messa in commercio, ottenendo un immediato riscontro positivo e divenne estremamente popolare, tanto è vero che, 18 anni dopo la sua uscita, essa era ancora presente nel listino Nikon. Anche se, è bene dirlo, non mancarono i soliti incontentabili che contestarono le dimensioni troppo ridotte della F3 rispetto alla F2, e paventarono fragilità e inaffidabilità della nuova uscita; inoltre, il funzionamento dell’otturatore elettronico condizionato dalla presenza di una batteria, fece storcere il naso ai professionisti, che temevano di rimanere in panne una volta esaurita, non ritenendo sufficiente il comunque presente tempo di scatto meccanico. Anche l’automatismo a priorità di diaframmi diede origine a malumori, ma credo che tutte queste rimostranze fossero giustificate da abitudini radicate e poca lungimiranza.

    Riassumendo le sue caratteristiche principali sono: esposizione automatica a priorità di diaframmi, visualizzazione dei dati nel mirino a mezzo di LCD illuminabile, sistema di misurazione con lettura semi-spot a prevalenza centrale (80/20), tempo meccanico di 1/60 di secondo, blocco della memoria di esposizione, otturatore del mirino, autoscatto con spia di progressione a LED, meccanismo di blocco dello specchio, mirino con visione del 100%, scala di compensazione dell’esposizione, leva per esposizioni multiple, eccetera. L’unica differenza con il modello F3 HP è il mirino: infatti quest’ultima (quella che ho avuto la fortuna di trovare io) monta un pentaprisma High Eyepoint dotato di un oculare maggiorato che consente di vedere inquadratura e dati esposimetrici anche tenendo l’occhio ad una distanza di 25 mm, funzione decisamente utile per chi come me deve portare gli occhiali.

    Le prime impressioni d’uso sono positive: la macchina è piccola e leggera, soprattutto se la si confronta con una full frame odierna ma, malgrado ciò, restituisce una sensazione (giustificatissima) di solidità e robustezza. Forse chi è abituato con i corpi delle moderne fotocamere, sia amatoriali che pro, rimarrà un poco spiazzato dalla poca profondità del grip laterale introdotto da Giugiaro, ma già il fatto che precedenti modelli addirittura non ne erano provvisti, risultando assolutamente piatti, è un notevole passo in avanti se si considera l’epoca di uscita della F3. Dal punto di vista puramente estetico, forse è più piacevole il modello F3 con pentaprisma normale, perché il pentaprisma imponente della F3 HP è abbastanza “importante”, ma si tratta di particolari. Il mirino è luminoso e può essere facilmente sostituito con uno di proprio gradimento/necessità: esistono ben cinque pentaprismi differenti, tre oculari e una ventina di schermi di messa a fuoco; di questi ultimi ho acquistato il tipo L che ha un telemetro graduato ad immagine spezzata angolato di 45°, utile soprattutto per la messa a fuoco delle linee orizzontali (qualcuno ha detto “paesaggio”?). Il pulsante di scatto non è particolarmente dolce, e serve per attivare l’otturatore che opera su due tendine al titanio che scorrono orizzontalmente; da segnalare un secondo pulsante di scatto meccanico a 1/60 di secondo, utilizzabile in emergenza di alimentazione delle batterie (due pile a bottone da 1,5V all’ossido di argento). Ho anche ritrovato sulla ghiera delle pose, una funzione dimenticata: la posa T, che è una sorta di posa B per lunghe esposizioni ma funziona senza utilizzare lo scatto flessibile (il Nikon AR-3): si preme il pulsante di scatto e, ad esposizione terminata, si gira la ghiera dei tempi su una posizione diversa da T, pratica un pochino macchinosa e, soprattutto, pericolosa per il mosso. L’esposimetro devo ancora valutarlo del tutto: ho scattato un solo rullino a colori da 36 pose, esponendo alcune foto con la valutazione dell’esposimetro integrato ed altre con l’ausilio di un esposimetro esterno. Sto ansiosamente aspettando i negativi sviluppati (vecchia abitudine dal sapore ineguagliabile) per vedere cosa ho combinato.

    Un’ultima cosa: perché mi sono preso la briga di scrivere questo? Perchè, per come la vedo io, stiamo parlando di magia. La magia di una macchina fotografica messa in commercio trentasette (!) anni fa ma che ha caratteristiche che troviamo ancora nelle macchine moderne, che permette di scattare comunque belle foto e che ha un fascino incredibile, raramente riprodotto nelle fotocamere presentate negli anni successivi.

    I cenni storici sono liberamente tratti ed adattati dal sito ufficiale Nikon, sezione History, Camera Chronicle.

     

  • La tëra

    La tëra

    Passeggiando per la campagna circostante il mio paese ho notato casualmente un filare di vite come non mi capitava di vedere ormai da diverso tempo, una forma di coltivazione dell’uva ormai in disuso ovunque, soprattutto nelle zone agricole a dominante vocazione vitivinicola: la tëra.

    Viene così definito in dialetto della bassa mantovana (altrove non ne ho idea) il filare di vite che orna i limiti delle coltivazioni formato, ovviamente, da piante di vite che vengono lasciate crescere notevolmente, e i cui tralci si allungano a destra e a sinistra della pianta stessa trovando appiglio su pali orizzontali fissati appositamente per favorirne l’appoggio. Questa struttura arriva a formare una sorta di galleria doppia, separata  al centro dai vitigni stessi e da altre piante, come querce e noci, che si trovano già nel filare o che vengono messe appositamente, offrendo un ulteriore sostegno alla struttura che si crea progressivamente.

    Non sono un esperto, anzi al contrario, ma credo che questo tipo di coltivazione della vite avesse come scopo quello di ottenere una produzione maggiore di uva a discapito (come dicono quelli che hanno studiato) della qualità del vino.

    In realtà, essendo un fervido sostenitore del lambrusco e trovando i moderni e asettici filari del vino “buono” (magari fermo come l’acqua di una pozzanghera e pastoso come una cucchiaiata di sapone), tutti cemento e fil di ferro con quattro foglie di vite in croce perché altrimenti si perde di percentuale zuccherina, ho rivisto con nostalgia profonda la tëra, perché mi sono tornati in mente i giorni trascorsi  in campagna dagli zii contadini, quando queste volte di foglie profumate erano un ombroso riparo dai raggi cocenti del sole al momento della merenda e ci si sedeva alla loro ombra a mangiare un panino col salame e qualche frutto; oppure i pomeriggi dell’infanzia trascorsi a giocare con gli amici, in cui le lunghe gallerie delle tëre si trasformavano nei corridoi di un palazzo di fantasia, in cui correre e giocare a nascondino. E che meraviglia la stagione della vendemmia, quando gli adulti tagliavano i pesanti grappoli e li riponevano con cura nelle grosse casse di legno e noi bambini ci ingegnavamo a rubare un chicco d’uva come se fino ad allora non fosse mai stata disponibile sulla pianta.

    Ma il mondo è andato avanti (?), le tëre scompaiono progressivamente e al posto di un bicchiere di lambrusco senza grilli per la testa ci dobbiamo sorbire quelli che hanno studiato che, calice alla mano (il bicchiere no, il bicchiere è volgare) ci dicono che quella roba slavata che sballottano nel vetro è un sauvignon dal colore ambrato, dall’odore fruttato con un retrogusto di nocciole delle Langhe cresciute in un campo di tarassaco.

    Poveri noi!

  • Val de Morins

    Val de Morins

     

    Capita che fai un giro in una valle laterale dell’Alta Badia, un po’ nascosta forse, e di colpo ti ritrovi immerso in una atmosfera che ti ricorda il Midwest statunitense, con le baruffe, anche a base di fucilate, fra i clan familiari che abitano quelle zone e…

    D’accordo, ho letto troppo e visto altrettanti troppi film.

    In realtà la valle del Rio Seres è nota come Valle dei Mulini, Val de Morins, per la presenza lungo il suo corso di numerose macchine idrauliche. Nel tratto tra i due centri di Seres e Miscì, posti rispettivamente sulla sinistra e sulla destra del torrente, sono concentrati otto mulini ad acqua, due dei quali dotati di una doppia ruota, ed una teleferica ad acqua. Come spesso accade, si rimane a bocca aperta al pensiero di quanta ingegnosità e di quanta fatica sia occorsa all’uomo per costruire e far funzionare queste strutture, in un ambiente non agevole e con mezzi limitati. E se non ci si pensa, pazienza: basta la bellezza del luogo e l’armonia con cui queste teoricamente invasive costruzioni si integrano con esso a stupire. Io, poi, sono fatto alla rovescia, non badateci: mi emoziona molto di più vedere una baracca in pietra e legno che serviva per dar da mangiare alle persone piuttosto che un anfiteatro dove le persone ci lasciavano le penne. Purtroppo queste splendide opere non sono più utilizzate, se non periodicamente per scopo dimostrativo in favore dei turisti. Mi è stato spiegato che da queste parti non si coltiva più il grano ed i mulini sarebbero “disoccupati”.

    Prendo la spiegazione per buona ma mi rattristo ugualmente.