Dicono i trentini che il larice attiri il fulmine, quindi, guai ripararsi sotto un larice quando c’è un temporale. Il perché della predilezione del fulmine per questa pianta viene dai montanari di Lavazè spiegato con la leggenda che vi narro.
C’era una volta lassù un larice; un bel larice giovane, verde, con tante fronde tenere che lo vestivano a festa lussuosamente. Egli si credeva il più bel larice del mondo, destinato a diventare chi sa che! Nell’inverno, quando la neve gli bordava d’ermellino la veste, assumeva un aspetto regale, pareva un candelabro, una torciera d’altare, un tabernacolo, qualcosa di grandioso e di solenne… Nella primavera, quando il sole lo puliva, luccicava con tutti i suoi aghi messi a nuovo, pronti a pungere e a graffiare, né l’estate lo ingialliva né l’autunno lo sfiorava.
Era il prediletto della fata dei boschi o egli si credeva tale, e aveva un contegno così sdegnoso che gli scoiattoli non osavano scalarlo, né gli uccelli fabbricavano il nido tra i suoi rami. Eppure lo avevano tentato, lo sapete?
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– Il vero valore si riconosce anche tra la folla – gli diceva la madre scrollando le fronde, ma era fiato buttato.
Quel larice pazzo si sentiva destinato a un’esistenza d’imperatore, e moriva di sbadigli, nella terra natia, costretto a viverci una vita uniforme pettegola in una promiscuità ingiuriosa. Il muschio gli si arrampicava sul tronco senza neppure chiedergli il permesso e pretendendo anzi gratitudine perché lo scaldava e lo vestiva! E l’edera che gli succhiava la linfa dicendo che non poteva staccarsi da lui perché l’amava troppo e sarebbe morta di dolore, lontana da lui, e le radici dei compagni che si univano alle sue avvincendole, incuranti delle sue proteste!
Il tasso, e il grillo, e le bestiole litigiose che stridevano e urlavano sotto le sue finestre di giorno e di notte, e più di notte che di giorno, senza nessun riguardo per le sue meditazioni e il risposo! E madonna marmotta che all’appressarsi dell’inverno si scavava la tana tra le sue radici, minandone le basi…
C’era di che spazientire un santo! In quella repubblica democratica egli si sentiva troppo aristocratico: aristocratico ogni giorno più. E perciò guardava in alto, in alto, sulle vette nude dei monti, e sospirava pensando alle cose belle che ci dovevano essere al di là. Lo chiese al vento, che cosa vedeva oltre le cime, sull’altro versante,
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Cammina, cammina, com’era pesante! Egli credeva di camminare lievemente come tutte le bestie a due, a quattro zampe e invece ogni passo gli costava una fatica mortale, ma pur di allontanarsi dal luogo natìo, avrebbe lasciato la vita, e non si fermava neppure a gettare uno sguardo di rimpianto al lembo di terra dov’era nato e cresciuto, e dove lasciava la mamma, i fratelli… ma su, balzelloni verso la vetta. Che fatica!
– Oh! – rideva la luna all’insolito spettacolo. – Di cose ne ho viste tante da che abito in cielo, ma di larici che camminano non ne ho visti mai.
– Sono contento di essere il primo – rispose il larice bilioso.
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Allora nessuno parlò più ed egli giunse in cima in un gran silenzio, accompagnato soltanto dal sibilo del vento che non lo temeva e non cessava di burlarlo: – E adesso? E adesso?
– Adesso, – rispose il larice respirando di sollievo poiché la vetta era raggiunta – adesso il mio sogno è compiuto; sono solo e domino i greggi dei pini e dei larici e degli abeti di tutto il mondo, e poiché ho conquistato il posto più alto, mi proclamo il loro re. – E piantò con fierezza le radici nel suolo. I pini, i larici e gli abeti guardarono in su, e risero di quella bravata, dicendogli: – In alto può abitare soltanto chi non soffre di vertigini, altrimenti si rischia di precipitare in basso irrimediabilmente.
…
Venne infatti l’inverno, e il larice ebbe freddo, e soffrì tutte le torture della inclemenza degli elementi, e gli scherzi del ghiaccio, e le sferzate della tormenta, ma sarebbe morto piuttosto che tornare al bel tepore che nonostante le intemperie proteggeva la comunità delle altre piante nel bosco dove era nato. Poi l’inverno passò, e dopo la primavera clemente, sopraggiunse l’estate e il vento ritornò a dargli buffetti sbarazzini sulla cima, esortandolo a tornare al suo bosco dove tutti l’attendevano per ripararlo dai raggi insopportabili del sole che l’avrebbero bruciato fino alle radici; ma il larice rifiutò di ascoltarlo e ripeté: – Pensa ai fatti tuoi, messer vento, e io penso ai miei. – Poi quando la vampa del sole divenne insopportabile e si abbatté tutta su di lui che si ergeva così solo sulla vetta del monte, incominciò a bruciare di sete, a infebbrarsi e a gridare: – Ho sete, ho sete! Nuvole abbiate pietà di me, regalatemi un poco di pioggia, non lasciate morire il re delle piante. – Le nuvole ne ebbero pietà, e raccoltesi in gruppo pensarono di combinare un po’ di temporale e chiamarono in aiuto i tuoni e i fulmini.
I tuoni e i fulmini, che non aspettavano di meglio, aderirono subito all’invito; ma un lampo sbarazzino, che non conosceva nessuna legge di pietà, vide quell’ostacolo drizzato tra lui e la pianura e n’ebbe fastidio, e gridatogli: – Come mai tu osi intralciare il cammino a un personaggio importante ed affaccendato come me? – lo abbatté con un salto, e non lasciò di lui che un mucchietto di cenere che il vento poi disperse per il mondo.
Da allora i lampi hanno giurato guerra alla famiglia dei larici, e non appena ne vedono uno, ci si abbattono sopra, credendo di distruggere l’ambizione e la superbia.
Pina Ballario – “Fiabe e leggende delle Dolomiti”
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