Categoria: Testo

  • “Vedere” in bianco e nero

    “Vedere” in bianco e nero

    Ci sono occasioni in cui ci si rende conto che una fotografia scattata a colori risulterebbe anonima, senza carattere,  mentre la stessa immagine prodotta in bianco e nero sarebbe certamente più interessante e significativa. Questione di luce, di contrasto, di linee, come è sempre stato. Però per molti di noi, abituati a vedere e “ragionare” a colori, immaginare una fotografia in bianco e nero prima di aver scaricato ed elaborato lo scatto in camera chiara (Lightroom, Camera Raw, eccetera) non è immediato, può costituire una vera e propria sfida, se non si è abituati.

    Ma con la Nikon Z7 (così come con la Z6) la questione si semplifica notevolmente. È sufficiente guardare attraverso il mirino (oppure lo schermo LCD) per vedere l’immagine desiderata a colori e, semplicemente premendo il tasto ‘i’ (info) sul dorso, trasformare la visione in bianco e nero; basta rilasciare il pulsante e tutto il mondo torna a colori. E quando decidiamo che inquadratura e luce sono quelli giusti, un colpettino (con cognizione, eh) al tasto di otturazione ed il gioco è fatto.

    E’ ovviamente necessario settare preventivamente il Picture Control con le impostazioni di scatto preferite (qui sotto ho messo uno screenshot di quelle che uso io sulla Z7) e, una volta pre-selezionata l’impostazione Monocromatico, semplicemente premendo, come detto, il pulsante ‘i’ (Info), sarà possibile visualizzare come sarà la nostra immagine in bianco e nero.

    D’accordo, non è un consiglio molto “didattico” ma sono convinto che questo piccola scorciatoia possa aiutarci ad imparare a “vedere” e realizzare le foto in bianco e nero. L’esperienza, come sempre, farà il resto.

  • Nikon Z7 mirrorless

    Nikon Z7 mirrorless

    E alla fine la curiosità ha prevalso sulle convinzioni: nello zaino ho aggiunto la nuova nata di casa Nikon, la fotocamera mirrorless Z7 con, in kit, lo zoom 24-70mm f/4 S e l’adattatore FTZ.

    Non si è trattato di una resa senza condizioni, lo avevo sempre dichiarato apertamente: “Appena Nikon produrrà una mirrorless full frame con una ergonomia decente e caratteristiche interessanti, ci farò un pensierino.”. Ecco, diciamo che il pensierino è stato un tantino breve e nemmeno troppo approfondito, ma tant’è.

    Appena si ha fra le mani la Z7 la prima impressione è: “Urca, è davvero grossa!”; poco a che vedere con modelli di altri produttori provati in precedenza, in cui l’impressione iniziale era quella di avere fra le mani un giocattolo di plastica con tasti e ghiere scomodi.

    La Nikon Z7 è equipaggiata con un sensore CMOS full frame da 45,7 megapixel che richiama alla memoria quello montato sulla D850 anche se, in questo caso, la casa giapponese ha implementato un sofisticato sistema di rilevamento di fase su sensore; i 493 punti autofocus a rilevamento di fase coprono il 90% dell’area dell’immagine e lavorano in combinazione con un sistema AF a contrasto tradizionale. In pratica si tratta di una notevole scommessa tecnica, da parte di Nikon, con questo autofocus ibrido su full frame. Non è innovativo il sistema di riconoscimento del viso, mi aspetto un upgrade in tal senso nei prossimi sviluppi. Per quanto concerne il discorso tenuta ad alti ISO, pur essendo decisamente buona, c’è probabilmente di meglio; però se avessi voluto dei files più “puliti” dal rumore elettronico generato dagli scatti ad alti ISO non avrei acquistato la Z7 ma avrei aspettato l’uscita della sorellina minote Z6, sicuramente più “attrezzata” in tal senso grazie al sensore da 24,2 megapixel; questo aspetto non mi tocca più di tanto, a dire il vero: io ho la sensibilità “inchiodata” a 64 ISO e da lì rifuto in genere di muovermi, visto il genere di foto che prediligo.

    Sempre per la prima volta, una fotocamera Nikon è dotata di un sistema di stabilizzazione in camera anziché sugli obiettivi come accaduto fino ad ora con il sistema di stabilizzazione denominato VR: la Z7 è dotata di un sistema di stabilizzazione su 5 assi che consente di utilizzare i nuovi obiettivi Nikkor S senza che questi abbiano l’ingombro del sistema VR oppure di montare (grazie all’adattatore FTZ) gli obiettivi con attacco F; se questi sono stabilizzati a loro volta, le due stabilizzazioni coesistono e lavorano in sintonia; infine è anche possibile utilizzare gli obiettivi con attacco F non stabilizzati facendoli diventare, di fatto, obiettivi con il VR. Varie recensioni parlano di un guadagno in termini di stabilità di addirittura 5 stop; mi riservo di provare personalmente questa affermazione, ma le premesse sono indubbiamente interessanti.

    Ho parlato di obiettivi con attacco F da utilizzare con adattatore ed il motivo è presto detto: la mirrorless Nikon, dopo decenni di immutabile fedeltà all’attacco F, che ha consentito una longevità incredibile anche ad obiettivi prodotti negli anni ’60 del secolo scorso, ha adottato un nuovo innesto per gli obiettivi, appunto la montatura Z, che ha un diametro di 55 mm, ben 11 mm più larga rispetto alla montatura Nikon F e una distanza flangia – sensore di 16 mm; questa configurazione offre di fatto ai progettisti di obiettivi Nikon una nuova libertà costruttiva, scavalcando limiti fisici in precedenza insormontabili; inoltre la possibilità di montare l’adattatore FTZ consente una retro-compatibilità notevolissima con i vecchi obiettivi: poco meno di un centinaio di obiettivi attacco F sono perfettamente utilizzabili sia come autofocus che esposizione automatica ed oltre 350 obiettivi più datati possono essere utilizzati sacrificando l’autofocus ma mantenendo l’esposizione automatica, tutto ciò a garantire un bel po’ di sollievo ai possessori di ottiche Nikon, che possono valutare il passaggio al sistema mirrorless senza troppi patemi d’animo finanziari. Inutile dire che questo particolare ha notevolmente influito sulla mia decisione di acquistare la Z7, perché un conto è aggiungere (o sostituire) un corpo macchina all’attrezzatura ed un altro rifare ex-novo il parco ottiche.

     

    Discorso ergonomia: l’ho già detto, la prima impressione è di avere in mano una fotocamera, non la macchina fotografica di Ken e Barbie. Nikon ha creato una impugnatura con una bugna molto pronunciata che consente di avere una presa decisamente salda della fotocamera, comoda e che non stanca la mano anche dopo parecchio tempo di utilizzo; questo spazio ulteriore ha consentito inoltre di alloggiare nella fotocamera una batteria dello stesso tipo di quelle in uso sulle DSLR della serie D7xxx, D6xx, D7xx e D8xx: le batterie della Nikon Z7 sono denominate EN-EL15b e possono essere interscambiabili con le EN-EL15 e EN-EL15a in uso sulle reflex appena elencate; unica differenza: la EN-EL15b della Nikon Z7, al contrario delle altre batterie, è l’unica che può essere ricaricata direttamente in macchina attraverso l’apposita presa USB. Per la durata di questa batteria mi sento categoricamente di smentire quanto affermato in precedenza da recensioni della prima ora: con l’uso che faccio io della fotocamera, riesco ad avere quasi la stessa autonomia che ho con la D850. Il corpo di dimensioni decenti offre anche il vantaggio di poter ospitare i tasti fisici che si trovano normalmente su di un corpo reflex professionale o prosumer. Sul retro della Z7 ci sono praticamente tutti, anche se disposti in modo un po’ diverso. Unica “mancanza” a cui mi dovrò abituare riguarda il tasto AE che, in realtà, non manca realmente ma è stato assegnato al pulsante joystick che ha anche la funzione di posizionamento del punto di fuoco. Anteriormente ci sono due tasti personalizzabili, di fianco al bocchettone, comodi da utilizzare con la mano destra.

    Il sistema di visione mi sembra molto buono, soprattutto se confrontato con fotocamere mirrorless provate in precedenza; alcuni fotografi continueranno a privilegiare il mirino ottico delle reflex, ma Nikon ha decisamente fatto le cose per bene con questo EVF con risoluzione da 3,69 milioni di punti: è talmente nitido che non si nota alcuna granularità e ci si ricorda di avere a che fare con un mirino digitale solo se si sposta molto rapidamente la fotocamera e si può notare un leggero ritardo o un po’ di sfocatura. Questo lievissimo ritardo del mirino non è assolutamente un problema nella fotografia statica (tipo quella di paesaggio) mentre potrebbe essere visibile durante gli scatti in sequenza veloce: non si perde lo scatto ma occorrerà abituarsi. Molto utile e facilmente selezionabile il tasto che consente di escludere a scelta l’uso dell’EVF o del touchscreen o di renderli utilizzabili entrambi in alternanza.

    Anche il display posteriore, a tale proposito, è veramente buono: si tratta di uno schermo touchscreen da 2,1 milioni di pixel, estremamente nitido, inclinabile come già avviene nella D500 e nella D850, comodissimo per le riprese da bassa angolazione; permette anche di mettere a fuoco e scattare con un solo tocco e di modificare un elevato numero di impostazioni della fotocamera. Ovviamente, anche in questo caso, occorre abituarsi e fare attenzione a non toccarlo inavvertitamente per non rischiare di modificare in modo accidentale qualche impostazione o il punto AF e, se proprio non ci si abitua, è una funzione che si può disabilitare in qualsiasi momento.

    Per me che sono abituato ad usare il piccolo pannello riassuntivo delle impostazioni che si trova sulla parte superiore delle reflex, è stata una bella conferma trovarlo anche sulla Z7: è un pannello OLED con caratteri chiari su fondo scuro, che lo rende molto leggibile anche alle talpe come il sottoscritto.

    Discorso unica scheda di memoria XQD che ha fatto stracciare le vesti a parecchia gente e sputare sentenze ad altrettanti invidiosi: non sono un matrimonialista e quindi per me si tratta di un non-problema. Capisco che chi ci lavora con la fotocamera possa avere qualche dubbio, ma considerata la robustezza ed affidabilità del formato XQD, direi che si può essere abbastanza tranquilli. Poi, ripeto, rispetto le opinioni di tutti.

    In conclusione: non sono un esperto e non sono in grado di portare a termine test probanti sulle prestazioni della fotocamera, non ne ho la capacità ed i mezzi. Però avendo usato tutta le “famiglia” Nikon della serie D8xx (ultima la D850) e la D500, credo di poter dire che la Nikon Z7 è una macchina che lascia il segno, bella da vedere e comoda da usare, con un sensore, un sistema di visione ed una messa a fuoco veramente notevoli. Con, in più, la possibilità di poter continuare a fotografare con gli obiettivi con attacco F senza essere costretti a svenarsi in un cambio radicale di sistema e la “promessa” di poter utilizzare prossimamente obiettivi molto performanti, grazie al nuovo innesto Z. E con i suoi (molti) pregi e (pochi) difetti la Nikon Z7 è indubbiamente la fotocamera mirrorless che aspettavo per cominciare a prendere confidenza con questa tecnologia, potendo continuare a sfruttare appieno l’attrezzatura che già posseggo, in attesa di capire cosa voglio dare da grande.

     

  • Nikon S3, classe e telemetro

    Nikon S3, classe e telemetro

    Il modello Nikon S3 Year 2000 Millennium (Y2K) è una riproduzione della fotocamera a telemetro Nikon S3, presentata nel marzo 1958. È stata prodotta in quantità limitata per commemorare l’anno 2000. L’S3 Y2K è stata prodotta il più possibile identica all’originale Nikon S3 ad eccezione di dettagli molto piccoli, per uniformarsi alle moderne pratiche operative della fotocamera, compresa la variazione dell’indicazione dell’esposizione da “20” a “24” e l’indicazione della sensibilità del film calibrata in ISO invece di ASA . Nel ripresentare la S3, Nikon fece le cose in grande stile: creò nuovamente stampi e matrici di produzione ed apportò altri miglioramenti, come ad esempio la manovella di riavvolgimento riprogettata e la copertura anteriore in alluminio anziché in plastica.

    Nikon lanciò la sua linea di prodotti a telemetro 35 mm con la Nikon I presentata nel 1948, che si è successivamente evoluta in M e S, e la serie a telemetro è stata considerata come linea di fotocamere principali fino alla uscita e alla diffusione delle fotocamere reflex a obiettivo singolo. La serie S è stata il precursore della Nikon F ed era molto apprezzata come macchina fotografica classica.

    Nikon S3 era un modello relativamente recente della serie S, dotato di un telemetro con il primo mirino 1: 1 a grandezza naturale al mondo per obiettivi con lunghezza focale di 35 mm. La Nikon nella S3 Y2K ha riprodotto con precisione non solo il mirino a grandezza naturale da 35 mm, ma anche il riduttore di regolazione della lunghezza focale disposto nella parte superiore destra del corpo, e il suono silenzioso e dell’otturatore, chiamato ‘sussurro’ a quei tempi.

    Nel 2000 Nikon decise di produrre nuovamente la S3 in edizione limitata, per essere venduta solo in Giappone: gli appassionati dovettero fare i salti mortali, all’epoca, per poter avere uno degli 8.000 set prodotti, set composti appunto dalla S3, da un nuovo obiettivo Nikkor-S 50mm f/4 ed una custodia in vera pelle.

    L’obiettivo standard Nikkor S 50 mm f / 1.4 era una riproduzione dell’obiettivo incorporato nella versione Olympic, noto come il tipo “serie successiva” interamente cromato. Era un obiettivo multistrato proprio come gli obiettivi Nikkor attualmente disponibili per garantire un più alto grado di riproducibilità del colore.

    La Nikon S3 utilizza l’innesto a baionetta tipo S. Questo tipo di attacco è compatibile con tutti gli obiettivi per macchine a telemetro Nikon, ma non è compatibile con l’attacco F, introdotto nel 1959 e tutt’ora in uso (cosa che personalmente adoro).

    Nel giugno 2002, la Nikon S3 Limited Edition Black è stata prodotta e commercializzata in una quantità limitata di 2.000 riprogettando il modello S3 Y2K con una finitura nera.

  • Pellicola Rollei Infrared

    Pellicola Rollei Infrared

    Tempo di esperimenti (e quando mai finiscono, gli esperimenti?) con una pellicola particolare, la Rollei Infrared 400 iso 35 mm, pellicola pancromatica in bianco e nero con sensibilità all’infrarosso fino a 820 nanometri (brevemente nm) se si utilizza l’apposito filtro.

    Per me si tratta di una prima assoluta in quanto, fino ad ora, ho scattato fotografie all’infrarosso utilizzando una macchina digitale Nikon D90 privata del filtro deputato, appunto, al blocco delle radiazioni infrarosse ed ho voluto provare a fare qualcosa di diverso, con un metodo di scatto che non richiede la modifica praticamente irreversibile di una fotocamera digitale ma unicamente l’utilizzo di un rullino per infrarosso su  una macchina analogica normale (io ho usato una Nikon F100) e dei filtri dedicati, il filtro rosso R60 oppure il filtro rosso scuro R72, nella versione circolare da avvitare sull’obiettivo, nel mio caso un Nikkor AF-S 20 mm f/1.8 G ED.

    Tornando alla pellicola, questa, al contrario di altre pellicole specifiche per infrarosso, può essere caricata sulla fotocamera in condizioni di semioscurità, senza pregiudicare l’esposizione dei primi fotogrammi del rullino (la Kodak, ammesso di riuscire a trovarla ancora, richiede di essere caricata in assoluta oscurità). Anche lo scarico è sufficiente che avvenga in condizioni di luce attenuata, permettendo comunque di vedere ciò che si sta facendo.

    La Rollei Infrared può essere utilizzata anche come una normale pellicola in bianco e nero e restituisce delle foto con grana molto fine e ottimi dettagli in luci ed ombre, ma il suo indirizzo ideale è l’infrarosso, ottenibile applicando il filtro rosso scuro R72, che è decisamente opaco (approssimativamente si perdono 4 o 5 stop a filtro montato) e che obbliga a lunghe esposizioni e di conseguenza rende indispensabile l’utilizzo di un treppiede e dello scatto remoto. Praticamente, in pieno sole estivo e con un filtro Hoya R72 montato, ho visto che l’esposizione di 1 secondo è un buon punto di partenza ma consiglio caldamente di scattare in manuale e provare ad effettuare almeno un altro paio di scatti con tempi raddoppiati progressivamente; si dovrà scartare qualcosa nelle pose risultanti, ma ci sono ottime probabilità di portare a casa almeno uno scatto correttamente esposto.

    Per ottenere questa serie di foto ho seguito i seguenti passi, se può interessare:

    • ho messo la macchina sul treppiede con lo scatto remoto installato ma senza montare il filtro R72
    • ho scelto l’inquadratura che mi interessava ed ho messo a fuoco fidandomi dell’AF della macchina
    • ho messo la fotocamera in modo di esposizione manuale e fuoco manuale per non modificare quello preventivamente fissato
    • ho installato il filtro R72 ed accettato la misurazione dell’esposizione che mi suggeriva la macchina
    • ho effettuato il primo scatto con l’ausilio dello scatto remoto (sulla Nikon F100 non c’è la possibilità di scattare alzando preventivamente lo specchio ma, se vi è possibile, utilizzate assolutamente questa opzione)
    • ho successivamente effettuato altri due scatti, raddoppiando il tempo di scatto iniziale suggerito di 1 secondo.

    Se i soggetti delle foto vi dicono qualcosa, avete ragione, non ho avuto molta fantasia: sono tornato sui luoghi di “delitti” precedenti scattati in infrarosso con la digitale ma trattandosi, come detto, di esperimenti, non sono andato troppo per il sottile con l’originalità.

    Un ultima raccomandazione: sviluppate (se siete bravissimi) o fate sviluppare la pellicola esposta il più rapidamente possibile.

     

  • Yashica FX3 Super 2000, l’inizio

    Yashica FX3 Super 2000, l’inizio

    La Yashica fu fondata in Giappone nel 1949 e, insieme a Nikon e Canon, è uno dei più antichi e prestigiosi nomi della fotografia del Sol Levante. In un primo tempo la produzione fu incentrata su apparecchi biottici e, nel 1959, iniziò anche la fabbricazione di reflex a lente singola. Nel 1973 mise in atto una collaborazione con la tedesca Contax per la creazione della reflex RTS, ottenendo in cambio il diritto di utilizzare i prestigiosi obiettivi Zeiss, grazie alla progettazione di una baionetta di innesto comune ad entrambe le marche. La produzione delle nuove reflex giapponesi con baionetta Contax/Yashica (brevemente C/Y) fu avviata nel 1975 con il modello FX-1 a cui seguirono altri modelli, fra i quali, nel 1979, la fotocamera entry level della serie, la FX 3. Come già detto altrove, occorre fare mente locale sul concetto di entry level dell’epoca: contrariamente a quanto accade ai nostri giorni, le macchine fotografiche base erano prive di alcuni automatismi ed accessori presenti sui modelli di fascia più elevata, ma le caratteristiche di affidabilità, qualità ed ergonomia erano le medesime. La Yashica FX-3 divenne ben presto un modello richiestissimo e la sua produzione si protrasse per circa 23 anni, mantenendo le sue peculiarità, se si escludono alcuni aggiornamenti minori, l’ultimo dei quali nel 1986 che produsse la versione Super 2000, che deve il suo nome al tempo di scatto minimo disponibile di 1/2000 rispetto al 1/1000 del modello originale e annovera l’aggiunta di un grip per facilitarne l’impugnatura.

    A mio giudizio (ma non solo mio, visto il successo ultra ventennale) è una reflex dall’aspetto piacevole, compatta (135x85x50 mm) e leggera (poco meno di 500 grammi il solo corpo). Decisamente robusta a livello meccanico, la FX 3 Super 2000 non lo è altrettanto come corpo, in cui viene utilizzata parecchia plastica, seppure di ottima qualità. Il dorso è incernierato al lato destro del corpo stesso e si apre tirando verso l’alto il pomellino di riavvolgimento del rullino. Decisamente semplice caricare la pellicola: si inserisce la linguetta del rullino nella fessura del rocchetto sulla destra, la si mette leggermente in tensione con la leva di carica e agendo successivamente sulla manovella di riavvolgimento e, dopo la chiusura del dorso, si scatta fino a raggiungere il numero 1 sul contascatti. Il mirino della FX-3 mostra il 92% dell’inquadratura ed è decisamente e piacevolmente spartano: al suo interno, infatti, ci sono solo tre led posti in verticale sulla destra che mostrano la sovraesposizione (un “+” rosso), la corretta esposizione (un pallino verde) e la sottoesposizione (un “–“ rosso). La messa a fuoco (manuale) avviene a mezzo di telemetro con immagine spezzata al centro e un anello di microprismi.  L’otturatore è completamente meccanico, un Copal Square a lamelle metalliche con tempi di scatto da 1 secondo a 1/2000 di secondo e posa B e funziona anche senza pile, che sono però presenti nel fondello della fotocamera e servono solo al funzionamento dell’esposimetro; originariamente si utilizzavano le SR44 (ossido d’argento) ma, essendo ormai introvabili o quasi, vanno benissimo due LR44 alcaline da 1,5V (o una CR2 al litio da 3V). L’esposimetro si attiva con una leggera pressione del pulsante di scatto (che presenta la filettatura per lo scatto flessibile) e la corretta esposizione si presenta, come detto, quando il solo led verde è acceso; se contemporaneamente si accende anche uno dei led rossi, significa che c’è una differenza di esposizione di ½ stop; la lettura è di tipo TTL  e la sensibilità ISO va da 25 a 3200. Sul frontale della FX 3 è presente la levetta che aziona l’autoscatto che ha la notevole prerogativa di pre-ribaltare lo specchio, garanzia di riduzione delle vibrazioni (prendere buona nota).

    L’obiettivo standard commercializzato con la FX 3 Super 2000 è lo Yashica ML 50 mm e massima apertura f/1,9. Per concludere: la FX 3 si dimostra veramente piacevole da usare, grazie alla sua leggerezza ed al suo bilanciamento e dopo pochi minuti si ha l’impressione di averla usata da sempre (sarà anche perché per me è stato veramente così, essendo stata la mia prima fotocamera), pur con tutti i suoi limiti, come la poca rapidità del sistema a collimazione di led o la ghiera dei tempi un po’ dura da azionare con un dito solo, per non parlare dell’otturatore dal suono piacevole ma decisamente “importante” e quindi non proprio ideale per la foto di strada, se si vuole passare inosservati. Per contro, la possibilità di poter montare gli ottimi obiettivi Carl Zeiss T* è un plus non indifferente e la mancanza di automatismi “costringe” a concentrarsi su quello che più conta: il soggetto della fotografia. Allegati a questo testo, ci sono alcuni scatti.

  • Nikon FM3a – Ne resterà solo una

    Nikon FM3a – Ne resterà solo una

    La Nikon FM3a è probabilmente l’ultima fotocamera reflex con messa a fuoco manuale ad essere stata realizzata. E altrettanto probabilmente è anche una delle migliori mai prodotte. Questa macchina fotografica ha una storia interessante. E’ l’ultima reflex meccanica realizzata da una grande casa produttrice ed è l’unica ad essere stata rilasciata in questo secolo: la sua progettazione è iniziata nel 1998, i prototipi pre-produzione sono stati presentati nel 2000 e la Nikon FM3a è stata lanciata nel 2001; è rimasta sul mercato solo per cinque anni e la sua produzione è cessata nel gennaio del 2006.  Come detto questa è stata l’ultima macchina fotografica meccanica di Nikon perché la FM10 (unica fotocamera analogica a listino fino a poco tempo fa insieme alla ammiraglia 35mm F6, ancora presente) è stata progettata e prodotta da Cosina su licenza Nikon. Il lignaggio della FM3a è riconducibile a tre linee Nikon: la gloriosa serie F, la serie FE in cui Nikon ha progressivamente introdotto tutte le funzioni elettroniche e di automazione e la serie FM che è rimasta fedele alla natura meccanica (e di assoluta robustezza) dopo che la serie F ha abbracciato elettronica e motorizzazione con la F4.

    Otturatore ibrido – Ciò che rende la FM3a piacevolmente speciale non è tanto la sua natura meccanica ma il fatto che, a quanto ne so, è l’unica fotocamera con controllo dell’otturatore sia meccanico che elettronico con la possibilità di utilizzare tutte le velocità di otturazione previste anche in mancanza della batteria nella fotocamera (a proposito sono necessarie due LR44 alcaline a bottone, visto che le originarie SR44 non sono più prodotte). Tanto per fare un esempio banale: la Leica M7 non è in grado di farlo senza batterie e il suo otturatore può funzionate solo a 1/60mo o 1/125mo di secondo. L’otturatore della FM3A può arrivare fino ad 1/4000mo di secondo meccanicamente, partendo dalla posa B (bulb) senza batterie. Quando invece nella fotocamera sono presenti le batterie e si fotografa utilizzando la modalità a priorità di diaframma, si può scattare utilizzando l’intera gamma di otturazione, ipoteticamente anche a 1/875mo di secondo se la misurazione esposimetrica lo richiede.

    Misurazione, indicatori e lenti – La FM3a è decisamente analogica. Il sistema di misurazione è a media ponderata centrale, ma la chicca è come questa misurazione viene visualizzata: tramite una lancetta aghiforme che indica in modo continuo quella che dovrebbe essere l’esposizione corretta secondo la fotocamera. Più analogico di così! La fotocamera è in grado di leggere gli indicatori DX sui rullini della pellicola per il valore ISO oppure consente di impostarlo manualmente. Tutti gli obiettivi Nikon prodotti dopo il 1977 possono essere utilizzati sulla FM3a ad eccezione dei G mentre le lenti pre AI possono essere utilizzate con il metodo stop-down. Interessante e non scontato su una fotocamera meccanica il pulsante AE per il blocco dell’esposizione.

    Costruzione – L’obiettivo di Nikon relativamente alla FM3a era di costruire una fotocamera che potesse sopportare anni di uso costante. Proprio per questo realizzò la scocca in ottone, ma non solo. Durante lo sviluppo del progetto, Nikon, desiderosa di testare la fotocamera in situazioni reali e condizioni estreme, inviò i prototipi in Antartide per quattro mesi e ne ricavò informazioni  preziose che influenzarono la costruzione finale. E’ vero che il corpo non è tropicalizzato come le attuali fotocamere pro, ma il corpo della FM3A è in grado di gestire le condizioni estreme molto bene.

    Funzionamento – E’ un piacere usare la FM3a. E’ robusta ma non pesante ed il vostro collo vi ringrazierà a fine giornata. La fotocamera si attiva arretrando un poco la leva di avanzamento della pellicola; diversamente non è possibile attivare l’otturatore e nemmeno effettuare le misurazioni esposimetriche, con il risultato di preservare la batteria (per l’esposimetro) e di non effettuare scatti accidentali. L’avanzamento della pellicola è rapido e sicuro ed offre quella lieve resistenza che, dal punto di vista personale, è rassicurante. Stesso discorso per l’otturatore: non è morbidissimo ma considero anche questo un pregio. Discorso diverso per il selettore delle sensibilità ISO: è vero che la sua configurazione mette al riparo da modifiche accidentali che rovinerebbero le fotografie, ma è effettivamente un poco difficoltoso da utilizzare. Essendo una fotocamera ad esposizione automatica con priorità di diaframmi è possibile compensare l’esposizione di + o – due stop, con incrementi di 1/3 di stop. E, per le situazioni limite, sul retro c’è il pulsante AE di blocco dell’esposizione. Sul davanti c’è il tasto per l’anteprima della profondità di campo e un timer meccanico (anche se può far scattare l’otturatore elettronico in modalità AE). Inoltre è da segnalare che Nikon ha inserito anche una leva per le esposizioni multiple. Il mirino è molto luminoso ed il sistema di messa a fuoco è con telemetro graduato con immagine spezzata.

    Conclusione – La FM3a è stata un risultato notevole per Nikon. Quello che sorprende è che la casa nipponica abbia investito un sacco di risorse per la ricerca e lo sviluppo di questa fotocamera (e, soprattutto, dell’otturatore ibrido) quando era chiaro i giorni delle reflex analogiche erano un po’ meno luminosi. Oltre a questo non è andata al risparmio con i materiali costruttivi, con il risultato di ottenere una fotocamera che non sfigurava affatto al cospetto di “colleghe” decisamente più considerate (qualcuno ha detto Leica?).

  • Nikkormat, “la Nikon F dei poveri”

    Nikkormat, “la Nikon F dei poveri”

    Negli anni ‘60 iniziò la fortuna delle fotocamere reflex a discapito della diffusione di quelle a telemetro. Una spinta non indifferente la diede l’uscita sul mercato della Nikon F nel 1959, che segnò una vera e propria pietra miliare nel mondo della fotografia. La F divenne ben presto l’ammiraglia di casa Nikon, anche in virtù delle sue caratteristiche professionali. E lo restò anche per lungo tempo, considerato che fu prodotta in circa un milione di esemplari. Unico neo (comune anche alle DSLR professionali odierne) era il costo elevato, fatto che convinse i vertici industriali della casa giapponese a commercializzare un prodotto che fosse più alla portata di chi non desiderava o non poteva svenarsi per una fotocamera. Venne prodotta allora la Nikkorex F che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto costituire il secondo corpo per i professionisti e una macchina appetibile per tutti. In realtà questa serie di fotocamere non ottenne il successo sperato e la loro produzione venne abbandonata all’inizio degli anni ‘70 in favore della serie Nikkormat che, di fatto, ottenne nelle sue varie versioni un successo non indifferente.

    La prima Nikkormat ad essere presentata fu la FT (sul mercato giapponese comparve con il nome di Nikomat); si trattava di una fotocamera con un corpo decisamente robusto, disponibile sia nella versione nera che cromata, fu prodotta nel corso del biennio 1965-1967 ed offriva prestazioni decisamente interessanti: tempi di scatto da 1 secondo ad 1/1000 di secondo, posa B, autoscatto, esposimetro TTL, possibilità di bloccare lo specchio, pulsante per controllare la profondità di campo. Nel 1967 iniziò la produzione della Nikkormat FTn, versione evoluta della FT, che aggiungeva, fra le altre cose, la scala dei tempi visibile nel mirino e la lettura esposimetrica a prevalenza centrale (semispot); la FTn fu prodotta fino al 1975, anno in cui fu presentata la FT2 con ulteriori miglioramenti, inclusa l’aggiunta della slitta portaflash.

    Giova ricordare che fino al 1977 le lenti Nikon non effettuavano automaticamente l’accoppiamento con l’esposimetro e quindi era necessario “istruire” il corpo macchina relativamente alla apertura massima disponibile sull’obiettivo che si stava montando. Per questo motivo sugli obiettivi era presente una piccola “V” metallica e quando si innestava l’ottica sulla macchina fotografica era necessario far entrare il piccolo perno presente sul bocchettone della stessa nella scanalatura della linguetta dell’obiettivo; era poi necessario ruotare la ghiera dei diaframmi prima in direzione della massima chiusura disponibile e poi verso quella minima. Questa procedura un poco complicata fu sostituita nel 1977 dal sistema AI (Automatic Indexing) che permise a Nikon di togliere il perno dai corpi delle fotocamere e di produrre gli obiettivi senza la caratteristica linguetta. Fu proprio nel 1977 che apparve l’ultima delle Nikkormat, la FT3, che poteva beneficiare di questa evoluzione.

    Come detto, la serie Nikkormat fu presentata anche per offrire al pubblico un prodotto più economico rispetto alle macchine professionali della serie F. A causa di ciò la Nikkormat venne spesso definita come “the poor man’s Nikon F” ovvero “la Nikon F dei poveri”. Niente di più sbagliato: le Nikkormat hanno come caratteristica principale una robustezza notevole, tanto è vero che a distanza di anni si trovano ancora in circolazione modelli perfettamente funzionanti e intatti come la FT2 che ho trovato io e mi risulta che all’epoca il distributore italiano offrisse per queste fotocamere addirittura la garanzia a vita! Dovrebbero essere macchine fotografiche entry-level, d’accordo, ma stiamo parlando di una macchina entry-level di più di 40 anni fa e la cosa si nota quando la maneggiamo: il corpo macchina è interamente in metallo, il mirino è decisamente luminoso, l’otturatore Copal S sul piano focale che arriva ad 1/1000 è più che sufficiente nella maggior parte delle situazioni, ha la possibilità di verificare attraverso l’apposito pulsante la effettiva profondità di campo, può scattare doppie esposizioni ed ha il blocco dello specchio. Tutte queste caratteristiche insieme sono decisamente da fotocamera di fascia medio-alta. Un vantaggio non indifferente è dato poi dalla non indispensabilità dell’alimentazione: la batteria c’è ma serve solo per il funzionamento dell’esposimetro, la macchina può scattare sempre e comunque. Nulla a che vedere con la bramosia energetica delle moderne macchine fotografiche, mirrorless in testa.

     

  • Nikon F3

    Nikon F3

    Era settembre del 1971 quando Nikon presentò la F2; questo modello di fotocamera fu subito molto apprezzato ma non mancarono anche le critiche, soprattutto da parte di chi lo considerava un modello “conservativo” che migliorava solo alcune caratteristiche del precedente modello F. Inoltre, come detto, era dal ’71 che Nikon non proponeva una nuova fotocamera professionale. Tenendo conto di queste osservazioni, la sezione sviluppo di Nikon decise di studiare un nuovo modello di macchina fotografica che introducesse dei miglioramenti significativi e così venne ideata la Nikon F3. Nel progetto vennero individuati due punti fondamentali da studiare: l’esposizione automatica e la capacità di gestire accuratamente i tempi lunghi di esposizione; fino ad allora non vi era state richieste di introdurre la funzione di esposizione automatica ma, nonostante ciò, i tecnici della Nikon Corporation (allora Nippon Kogaku K. K.) decisero di integrare la funzione AE con la funzione dell’otturatore a controllo elettronico. Erano consapevoli che, all’inizio, questa funzione sarebbe stata accolta con freddezza ma erano comunque convinti che in futuro essa sarebbe diventata una caratteristica importante, anche sulle fotocamere professionali. Già nel progetto della F2, seppure con modalità differenti, si era cercato di introdurre sia la funzione di esposizione automatica che l’utilizzo dei tempi lunghi e così queste due idee furono riprese nel progetto della F3. Nel 1973, completato il progetto base, iniziò l’effettivo sviluppo della Nikon F3: fu mantenuto il mirino intercambiabile già utilizzato sulla F2; furono adottate nuove tecnologie come il controllo elettronico del piano focale dell’otturatore; così come con la Nikon F2 furono incorporati nel mirino Photomic il TTL ed il circuito AE; venne sviluppano il sistema elettromagnetico di scatto e così via. Insomma, molte problematiche erano state risolte ed era pronta una Nikon F3 Photomic AE, solida, ben concepita, degna di succedere alla fortunatissima F2, ma… non fu mai messa in produzione! Vennero riscontrati problemi con la misurazione TTL che falliva con alcuni tipi di mirini, quali il Waist-level finder e l’Action finder ed i tecnici Nikon non erano in grado di risolvere il problema. Fu deciso allora di orientarsi verso una nuova tecnologia: la misurazione TTL non dal mirino ma dal corpo macchina. Questa soluzione era già stata studiata in passato, ma gli effetti collaterali ( oscuramento del mirino, zona d’ombra, ecc.) non ne avevano permesso la realizzazione. Occorreva una nuova soluzione e si pensò allo specchio pin-hole. Dopo anni di studi i tecnici giapponesi avevano messo a punto uno specchio con dei piccoli buchi che non disturbavano la riflessione; la luce che passava attraverso questi piccoli fori veniva deviata da uno specchio inferiore verso il fondo del mirror-box e da lì, attraverso una lente, concentrata sul sensore TTL. L’introduzione di questo sistema di misurazione TTL pin-hole permise la riduzione delle dimensioni del mirino, un alleggerimento globale e quindi una maggiore compattezza rispetto alla precedente Nikon F2 con conseguente… complicarsi del progetto stesso, che fu interamente rivisto e ripartì con decisione nel 1976. Nel frattempo erano state studiate, indipendentemente dal progetto F3, nuove tecnologie (controllo elettromagnetico dell’otturatore, display LCD, eccetera) e così il capo progetto F3 fu costretto a prendere una difficile decisione: ricominciare tutto da capo per includere queste nuove tecnologie. A spingere verso questa decisione fu anche l’arrivo presso la Nikon di un designer di fama come Giorgetto Giugiaro che si adoperò per dare alla F3 uno stile “internazionale”, appetibile in tutti i mercati mondiali. Giugiaro introdusse l’holding grip frontale, l’integrazione del design del blocco motore con il corpo della fotocamera e altre soluzioni stilistiche notevoli. Alla fine del 1977 il progetto arrivò all’ultima revisione, quella definitiva e, finalmente, nel 1980 la Nikon F3 venne messa in commercio, ottenendo un immediato riscontro positivo e divenne estremamente popolare, tanto è vero che, 18 anni dopo la sua uscita, essa era ancora presente nel listino Nikon. Anche se, è bene dirlo, non mancarono i soliti incontentabili che contestarono le dimensioni troppo ridotte della F3 rispetto alla F2, e paventarono fragilità e inaffidabilità della nuova uscita; inoltre, il funzionamento dell’otturatore elettronico condizionato dalla presenza di una batteria, fece storcere il naso ai professionisti, che temevano di rimanere in panne una volta esaurita, non ritenendo sufficiente il comunque presente tempo di scatto meccanico. Anche l’automatismo a priorità di diaframmi diede origine a malumori, ma credo che tutte queste rimostranze fossero giustificate da abitudini radicate e poca lungimiranza.

    Riassumendo le sue caratteristiche principali sono: esposizione automatica a priorità di diaframmi, visualizzazione dei dati nel mirino a mezzo di LCD illuminabile, sistema di misurazione con lettura semi-spot a prevalenza centrale (80/20), tempo meccanico di 1/60 di secondo, blocco della memoria di esposizione, otturatore del mirino, autoscatto con spia di progressione a LED, meccanismo di blocco dello specchio, mirino con visione del 100%, scala di compensazione dell’esposizione, leva per esposizioni multiple, eccetera. L’unica differenza con il modello F3 HP è il mirino: infatti quest’ultima (quella che ho avuto la fortuna di trovare io) monta un pentaprisma High Eyepoint dotato di un oculare maggiorato che consente di vedere inquadratura e dati esposimetrici anche tenendo l’occhio ad una distanza di 25 mm, funzione decisamente utile per chi come me deve portare gli occhiali.

    Le prime impressioni d’uso sono positive: la macchina è piccola e leggera, soprattutto se la si confronta con una full frame odierna ma, malgrado ciò, restituisce una sensazione (giustificatissima) di solidità e robustezza. Forse chi è abituato con i corpi delle moderne fotocamere, sia amatoriali che pro, rimarrà un poco spiazzato dalla poca profondità del grip laterale introdotto da Giugiaro, ma già il fatto che precedenti modelli addirittura non ne erano provvisti, risultando assolutamente piatti, è un notevole passo in avanti se si considera l’epoca di uscita della F3. Dal punto di vista puramente estetico, forse è più piacevole il modello F3 con pentaprisma normale, perché il pentaprisma imponente della F3 HP è abbastanza “importante”, ma si tratta di particolari. Il mirino è luminoso e può essere facilmente sostituito con uno di proprio gradimento/necessità: esistono ben cinque pentaprismi differenti, tre oculari e una ventina di schermi di messa a fuoco; di questi ultimi ho acquistato il tipo L che ha un telemetro graduato ad immagine spezzata angolato di 45°, utile soprattutto per la messa a fuoco delle linee orizzontali (qualcuno ha detto “paesaggio”?). Il pulsante di scatto non è particolarmente dolce, e serve per attivare l’otturatore che opera su due tendine al titanio che scorrono orizzontalmente; da segnalare un secondo pulsante di scatto meccanico a 1/60 di secondo, utilizzabile in emergenza di alimentazione delle batterie (due pile a bottone da 1,5V all’ossido di argento). Ho anche ritrovato sulla ghiera delle pose, una funzione dimenticata: la posa T, che è una sorta di posa B per lunghe esposizioni ma funziona senza utilizzare lo scatto flessibile (il Nikon AR-3): si preme il pulsante di scatto e, ad esposizione terminata, si gira la ghiera dei tempi su una posizione diversa da T, pratica un pochino macchinosa e, soprattutto, pericolosa per il mosso. L’esposimetro devo ancora valutarlo del tutto: ho scattato un solo rullino a colori da 36 pose, esponendo alcune foto con la valutazione dell’esposimetro integrato ed altre con l’ausilio di un esposimetro esterno. Sto ansiosamente aspettando i negativi sviluppati (vecchia abitudine dal sapore ineguagliabile) per vedere cosa ho combinato.

    Un’ultima cosa: perché mi sono preso la briga di scrivere questo? Perchè, per come la vedo io, stiamo parlando di magia. La magia di una macchina fotografica messa in commercio trentasette (!) anni fa ma che ha caratteristiche che troviamo ancora nelle macchine moderne, che permette di scattare comunque belle foto e che ha un fascino incredibile, raramente riprodotto nelle fotocamere presentate negli anni successivi.

    I cenni storici sono liberamente tratti ed adattati dal sito ufficiale Nikon, sezione History, Camera Chronicle.

     

  • Meglio ta(g)rdi che mai: Lenstag

    Meglio ta(g)rdi che mai: Lenstag

    Non è una novità, ma poiché mi sono deciso solo recentemente ad utilizzarne i servizi, volevo dire due parole su Lenstag, un sito internet usufruibile anche tramite applicazione per smartphone (indifferentemente per iOS e per Android).

    Sia i fotografi professionisti che i semplici appassionati come me, dispongono di diversa attrezzatura fotografica, tanta o poca non ha alcuna importanza; ciò che conta è che l’acquisto di questa attrezzatura è costato parecchi sacrifici e, come purtroppo spesso accade, vedersela sottratta è veramente un danno materiale e morale non indifferente. Questo può accadere secondo modalità diverse: un furto in casa, un furto in auto, qualcuno che ci ruba lo zaino fotografico mentre siamo impegnati a scattare e la nostra attenzione è rivolta altrove ma il comune risultato di questi casi è il danno che riportiamo.

    A parte attenzione e prudenza, non sono molte le armi con cui combattere questo problema: denuncia del furto subìto alle autorità, apertura di sinistro assicurativo (ammesso e non concesso di aver stipulato una onerosissima polizza su materiale fotografico, equiparata dalle compagnie alla polizza r. c. di un Boeing 747…), passaparola sui social.

    Da un po’ di tempo, però, c’è anche la possibilità di utilizzare i servizi messi a disposizione dal sito Lenstag. Di cosa parliamo? E’ un metodo di catalogazione del proprio materiale fotografico, ideato da un ingegnere del settore mobile di Google (ecco spiegata l’ottima interazione del servizio con il web), che può essere di aiuto nel processo di ritrovamento. Il suo utilizzo è molto semplice: si accede al sito www.lenstag.com, ci si registra semplicemente con un indirizzo mail come login ed una password a piacere (1234 è inviolabile, ma anche 0000 non scherza…) e si inizia a compilare i campi del modulo con il numero di serie della vostra fotocamera, dei vostri obiettivi, flash, battery-grip, eccetera, integrando ogni compilazione con una foto dell’oggetto in cui si legga chiaramente lo stesso numero di serie; io ho compiuto questa operazione utilizzando l’applicazione sullo smartphone con la comodità di poter utilizzare la fotocamera dello stesso per inserire la foto. Inutile rammentarvi che i numeri di serie, in genere, si trovano sulla base della macchina fotografica (a volte sul dorso, nei modelli meno recenti), sul barilotto dell’obiettivo vicino all’innesto e così via.

    E adesso? Una volta inseriti i dati del materiale, esso sarà automaticamente abbinato ad un codice numerico che indicherà tutto ciò che è nostro in una lista fruibile dalla comunità di Lenstag. Se chi ci dovesse aver rubato qualcosa tentasse di venderlo online, Lenstag, tramite un algoritmo legato al numero di serie che abbiamo registrato, ci invierà una mail avvisandoci del tentativo di vendita e di fatto regalandoci una speranza di trovare la nostra attrezzatura; e non è tutto: se il ladro pensasse di non vendere l’attrezzatura ma di tenerla per sé ed utilizzarla, l’eventuale pubblicazione di fotografie su internet verrebbe rilevata dal suddetto algoritmo grazie sempre al numero di serie contentuo nei dati Exif dello scatto e anche in questo caso riceveremmo una mail di avviso. C’è anche un’ultima possibilità, anch’essa utile per ritrovare materiale sottratto: se ci apprestiamo ad acquistare una macchina o un obiettivo usati, basterà inserire il numero di serie nell’applicazione ed in tempo ragionevolmente breve questa verificherà se lo stesso risulta appartenere ad oggetti rubati, di fatto evitandoci un acquisto incauto ed avvisando il vero proprietario della tentata vendita.

    Come già accennato, sia il sito web che l’applicazione mobile sono semplici da utilizzare; la versione per smartphone è anche localizzata decentemente in lingua italiana. Il tutto è gratuito. Esiste anche una versione pro, a pagamento (attualmente 19 $ all’anno), che però ritengo più utile per gli utenti statunitensi, per una serie servizi aggiuntivi non godibili da noi.

     

     

     

     

     

  • Valigetta rigida MAX 505

    Valigetta rigida MAX 505

    L’esigenza di avere a disposizione un contenitore pratico, robusto e possibilmente configurabile per conservare in casa l’attrezzatura fotografica e che fosse, al contempo, facilmente trasportabile in auto in caso di uscita d’emergenza (fotografica) mi ha spinto a provare diverse soluzioni, alla ricerca di quella più consona alle mie esigenze. Ho provato con gli zaini fotografici, che si sono rivelati molto buoni a livello di protezione, praticità e, ovviamente, prontezza all’uso ma che hanno il “difetto” di avere spallacci e cintura vita e, quindi, di occupare molto più spazio della loro reale capacità. Ho provato anche una sorta di contenitori in tessuto, imbottiti e con separatori configurabili, ma senza spallacci, cinture o cinghie varie: ottimi per il loro ingombro reale nel mobile di conservazione, un pochino “debolucci” per quanto riguarda la resistenza agli urti e, ovviamente, assolutamente inadatti al trasporto, se non abbinati ad uno zaino che li contenesse, scopo per il quale, per altro, erano stati creati.

    Ultimamente sto provando (l’ho acquistata, malelingue, non sono così fortunato da poter condurre test sponsorizzati) una valigetta rigida con imbottitura in spugna sagomabile, il modello MAX 505 S della RG Cases.

    Viene venduta in diversi modelli, per dimensioni e caratteristiche. Quella che sto utilizzando io ha il corpo in polipropilene copolimero con pareti spesse per garantire una buona resistenza agli urti, con quattro chiusure e perni in nylon, manico in materiale abbastanza morbido, guarnizione ermetica e persino la valvola automatica di pressurizzazione. Separatamente si possono acquistare le spugne precubettate (quella sul coperchio è invece bugnata) che sono facilmente sagomabili per sottrazione attorno a ciò che desideriamo proteggere, cioè asportando un cubetto di spugna alla volta fino a che abbiamo ottenuto una cavità consona alla sagoma dell’oggetto da contenere; oppure, sempre a parte, è acquistabile il kit pronto per l’attrezzatura fotografica, con pareti amovibili. Fra gli accessori disponibili ci sono anche una tracolla e i lucchetti a combinazione e la valigetta è già predisposta per la loro eventuale applicazione. Io ho approfittato di una offerta on-line e sono riuscito ad acquistare valigia e spugne in un sol colpo al prezzo della sola valigia e senza spese di spedizione (provate a dire un negozio web a caso…), ma ho intenzione di provare anche il kit fotografico.

    Come dicevo, queste valigette sono prodotte in diversi modelli e misure; quella che ho acquistato per me misura esternamente 55,5×21,1×42,8 cm ed è di colore arancio decisamente vivo, al limite dell’antiinfortunistica, ma mi piace; c’è anche in versione nera. Internamente le misure sono 50x35x19,4 cm. Completa di spugna pesa circa 4,3 kg, non una piuma effettivamente, ma il dilemma era sicurezza o trasportabilità: a me interessava la prima.

    Le prime impressioni d’uso sono decisamente positive: la valigetta è effettivamente robusta, ha il pregio di essere ermetica (non l’ho buttata in uno stagno, ma con la pioggia regge alla grande), è impilabile e se fate le cose con calma al momento di sagomare la spugna, al suo interno gli oggetti sono praticamente immobili ed ammortizzati, opzione che, quando si parla di materiale elettronico, fastidio non dà.

    Lati negativi? Ho detto poco fa che ”…se fate le cose con calma al momento di sagomare la spugna,…” perché, effettivamente, occorre prestare attenzione nello staccare i cubetti di spugna, prima di tutto per non creare una forma più larga dell’oggetto da contenere e soprattutto perché, una volta staccati, i cubetti non sono riattaccabili se non con colla e relative problematiche. Inoltre, ma questo ve lo potrò dire più avanti, devo verificare se la spugna, con il passare del tempo, tenda a “sbriciolare” ed a produrre quella polverina che, corpi tropicalizzati o no, a me personalmente infastidirebbe molto.

  • Regolazione fine autofocus su Nikon D500 (e D5)

    Regolazione fine autofocus su Nikon D500 (e D5)

    Finalmente una buona notizia per tutti coloro che sono costretti a perdere tempo e calma per la calibrazione fine del sistema autofocus delle macchine reflex, al fine di correggere eventuali problemi di front o back focus: Nikon ha introdotto nel nuovo corpo macchina D500 (ed ovviamente anche nell’ammiraglia D5 rilasciata nel medesimo periodo) un sistema automatizzato per la regolazione fine dell’autofocus, denominato Automated AF Fine Tune.

    Come è noto nelle macchine reflex, oltre al sensore dedicato alla registrazione dell’immagine, c’è un secondo sensore, posizionato sotto lo specchio. La presenza dei due sensori potrebbe determinare un disallineamento tra il sensore di immagine ed il modulo secondario AF, richiedendo una taratura fine delle ottiche (ogni singola ottica) per evitare problemi.

    Naturalmente le aziende produttrici di fotocamere reflex e di lenti operano molti controlli per evitare il più possibile questi inconvenienti, ma i processi produttivi generano comunque differenze che, seppure contenute entro determinate tolleranze, è meglio correggere autonomamente per ottenere il meglio possibile dalle proprie attrezzature. E proprio da questa necessità è nata l’idea di Nikon dell’Automated AF Fine Tune, che consente a chiunque, senza ricorrere a laboratori specializzati o a laboriose misurazioni con ausili tipo Datacolor Spyder Lenscale (seppur molto valido), di effettuare quella micro-regolazione che permette alla coppia fotocamera-lente di operare al meglio la messa a fuoco.

    Come funziona? In pratica utilizzando il Live View della fotocamera si effettua una messa a fuoco tramite il sensore di immagine (e non quello secondario destinato alla messa a fuoco) facendo uso del sistema a contrasto.

    Il processo è relativamente semplice e veloce:

    • posizionate la fotocamera su un treppiede stabile (non una cineseria, per favore);
    • attivate il Live View e, premendo il tasto SET, centrate il punto di messa a fuoco;
    • operate la messa a fuoco automatica e, se necessario, correggetela manualmente sfruttando l’ingrandimento dell’immagine;
    • premete ora contemporaneamente il tasto della selezione della messa a fuoco e quello della registrazione video e manteneteli premuti;

                        

    • dopo qualche secondo si aprirà una finestra di dialogo che chiederà se desiderate regolare la messa a fuoco fine;
    • premete il tasto OK per salvare tutto.

    Alcune avvertenze suggerite da Nikon: per ottenere una buona calibrazione è consigliato operare la messa a fuoco ad una distanza di circa 40x rispetto alla focale dell’ottica; quindi se, per esempio, l’ottica è un 24mm, sarà necessario mettere a fuoco un soggetto posto ad almeno 960 millimetri, ovvero 96 centimetri. E anche: per alcuni obiettivi il valore di taratura ideale può variare in funzione della distanza del soggetto dalla macchina fotografica e ciò significa che è meglio effettuare la taratura ogni qual volta si renda necessario fotografare ad una certa distanza fissa come, ad esempio, una sessione di ritratto in studio. Inoltre: non sarebbe una cattiva idea ripetere l’operazione un paio di volte per vedere se i risultati di calibrazione sono i medesimi. Infine: poiché questa calibrazione è memorizzata solo per una lunghezza focale, in caso si debba tarare una lente zoom, è meglio effettuare la regolazione alla lunghezza focale maggiormente usata o, se necessario, ripeterla per la lunghezza focale che è richiesta in un determinato contesto. Io, per esempio, utilizzo per le foto naturalistiche il Nikkor 200-500mm perennemente “inchiodato” a 500mm e, ovviamente, ho effettuato a quella lunghezza focale la taratura.

    In definitiva questa automatizzazione del processo di microregolazione dell’autofocus promette molto bene; spero vivamente che possa essere perfezionata e, in futuro, applicata a tutte le fotocamere reflex magari consentendo il salvataggio di regolazioni diverse per diverse focali o distanze di messa a fuoco dello stesso obiettivo.

  • Metà di una foglia

    Metà di una foglia

    portfolie

    Sono a metà del progetto Portfolie. Sinceramente non me ne sono reso conto del fatto che metà del tempo stabilito sia già trascorso.

    Ma cos’è Portfolie? E’ il titolo che ho voluto dare, miscelando i termini Portfolio e Foglie, ad un cosiddetto Project 52, ovvero l’impegno (morale) a produrre una foto alla settimana, per cinquantadue settimane. Praticamente un anno di clic cadenzati.

    Oddio, ci sarebbe stato anche il Project 365, una foto al giorno, ma credo che quello sia un progetto per quando sarò in pensione.

    Non è un compito impossibile da portare a termine, se si escludono alcuni rari casi in cui impegni personali o meteo veramente inclemente mi hanno messo in difficoltà ed ho, per così dire, un poco “forzato” lo scatto.

    Io, poi, ho deciso di complicarmi leggermente la vita, pensando ad un filo rosso fotografico, definendo un tema e non accettando il semplice “è valido tutto”. Ho scelto le foglie.

    Un po’ perché ogni volta che osservo attentamente le loro forme, le sfumature di colore, la loro struttura più intima, ne rimango affascinato. Sono sempre belle. Da sole, insieme ad altre foglie dello stesso tipo o diverse, ambientate nel paesaggio o fotografate da vicinissimo. Ma anche perché, bighellonando per paesaggi della Bassa o sulle terre alte, è impossibile non incontrare “quella” foglia che rapisce la mia attenzione. E per le emergenze di mobilità c’è sempre il giardino di casa, catalogo ricchissimo di foglie e fonte comodissima di ispirazione, il set fotografico in infradito, come amo definirlo. Inoltre mi sono reso conto che avere un obiettivo, un progetto appunto, facilita spesso la vita di chi ama fotografare ma, ogni tanto, è a corto di idee. Quante volte mi è capitato di uscire dal lavoro, osservare un cielo bellissimo, tornare a casa, caricare in fretta e furia lo zaino fotografico in auto e partire a razzo, convinto di portare a casa “La Foto” e tornare invece un’ora dopo con la scheda SD vuota o contenente scatti talmente insulsi che si cancellano da soli, senza attivare l’opzione da menù e con un umore che definire nero è ottimismo. Ecco, in questi frangenti, il fatto di avere comunque un compito da svolgere mi aiuta veramente tanto. Provare per credere.

    E adesso, le altre ventisei settimane?

    Niente, avanti così, malgrado l’inverno imminente regali un po’ meno spunti.

    Anche se… gli aghi delle piante sempreverdi, puliti, bagnati dalla pioggia o ricoperti di neve, le foglie morte appoggiate morbidamente sulla prima neve, i cespugli di foglie e bacche colorate, le foglie del…

    Va bene, esco a fotografare.

    edit: Non so se alla fine il mini-sito rimarrà attivo, magari fra circa sei mesi la pagina si aprirà con un “error 404: page not found“, non ho ancora deciso; magari salverò le immagini in una cartella apposita contenuta in questo sito, oppure deciderò di stampare le cinquantadue foto in un libro di ampia tiratura: tre copie. Una per me, una se per caso qualcuno me la chiede ed una di scorta nel caso si rovini la prima.