Passeggiando per la campagna circostante il mio paese ho notato casualmente un filare di vite come non mi capitava di vedere ormai da diverso tempo, una forma di coltivazione dell’uva ormai in disuso ovunque, soprattutto nelle zone agricole a dominante vocazione vitivinicola: la tëra.
Viene così definito in dialetto della bassa mantovana (altrove non ne ho idea) il filare di vite che orna i limiti delle coltivazioni formato, ovviamente, da piante di vite che vengono lasciate crescere notevolmente, e i cui tralci si allungano a destra e a sinistra della pianta stessa trovando appiglio su pali orizzontali fissati appositamente per favorirne l’appoggio. Questa struttura arriva a formare una sorta di galleria doppia, separata al centro dai vitigni stessi e da altre piante, come querce e noci, che si trovano già nel filare o che vengono messe appositamente, offrendo un ulteriore sostegno alla struttura che si crea progressivamente.
Non sono un esperto, anzi al contrario, ma credo che questo tipo di coltivazione della vite avesse come scopo quello di ottenere una produzione maggiore di uva a discapito (come dicono quelli che hanno studiato) della qualità del vino.
In realtà, essendo un fervido sostenitore del lambrusco e trovando i moderni e asettici filari del vino “buono” (magari fermo come l’acqua di una pozzanghera e pastoso come una cucchiaiata di sapone), tutti cemento e fil di ferro con quattro foglie di vite in croce perché altrimenti si perde di percentuale zuccherina, ho rivisto con nostalgia profonda la tëra, perché mi sono tornati in mente i giorni trascorsi in campagna dagli zii contadini, quando queste volte di foglie profumate erano un ombroso riparo dai raggi cocenti del sole al momento della merenda e ci si sedeva alla loro ombra a mangiare un panino col salame e qualche frutto; oppure i pomeriggi dell’infanzia trascorsi a giocare con gli amici, in cui le lunghe gallerie delle tëre si trasformavano nei corridoi di un palazzo di fantasia, in cui correre e giocare a nascondino. E che meraviglia la stagione della vendemmia, quando gli adulti tagliavano i pesanti grappoli e li riponevano con cura nelle grosse casse di legno e noi bambini ci ingegnavamo a rubare un chicco d’uva come se fino ad allora non fosse mai stata disponibile sulla pianta.
Ma il mondo è andato avanti (?), le tëre scompaiono progressivamente e al posto di un bicchiere di lambrusco senza grilli per la testa ci dobbiamo sorbire quelli che hanno studiato che, calice alla mano (il bicchiere no, il bicchiere è volgare) ci dicono che quella roba slavata che sballottano nel vetro è un sauvignon dal colore ambrato, dall’odore fruttato con un retrogusto di nocciole delle Langhe cresciute in un campo di tarassaco.
Poveri noi!
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