Mah, ci sono quelle volte che prendo la macchina fotografica e parto, ma senza troppa convinzione. Il cielo così così, la prospettiva di fare una decina di chilometri a piedi nel bosco fangoso dopo le abbondanti piogge e l’acqua di piena del Po che inizia a salire, nessun volontario che abbia il buon cuore di accompagnarmi, nemmeno il cane che, se fosse per lui, verrebbe a gambe levate ma è periodo di caccia e non credo proprio che sia il caso.
Però parto ugualmente, stivali al ginocchio e pettorina giallo fluo: non devo cambiare una gomma nel bosco ma mi serve perché qualche doppietta che non accetta di tornare a carniere vuoto non cambi i connotati a me. Mi porto solo la macchina ed un obiettivo, l’adorato zoom tuttofare 16-35, un paio di filtri e l’indispensabile treppiede, visto che la luce scarseggia e i tempi rapidi di scatto saranno una chimera.
Vado nella zona di golena vicina al Po, la piena è imminente, in alcune zone un po’ più in basso l’acqua sta già avanzando silenziosa ma inesorabile, in lontananza si sente il ruggire del gigante d’acqua. Con somma gioia vedo che alcuni frammenti d’Autunno sono rimasti: non tutte le piante sono spoglie e, anzi, alcune hanno conservato piacevolissime note di colore. Da una macchia parte a razzo un capriolo emigrato dall’Appennino: riesco a malapena a fotografarlo con gli occhi, figuriamoci se ce la faccio con la fotocamera.
Poi esce il sole, che per pochi attimi illumina e colora quei particolari che cerco maldestramente di fotografare. E d’un tratto dimentico fatica, umidità, il fango che mi tappezza. E non mi pento di essere uscito.
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